Che il silenzio non sia silenzio
Che il silenzio non sia silenzio. Memoria civica dei caduti della resistenza. Nuova edizione a cura di Nicola Adduci, Barbara Berruti, Luciano Boccalatte, Andrea D'Arrigo, Giuliana Minute © edizione 2015 Museo diffuso della Resistenza, Istoreto.
In ricordo di Bruno Carli che ha tenuto viva la memoria dei caduti della Resistenza.
Riproduciamo in questa scheda i materiali, i saggi, gli itinerari che sono pubblicati nel volume *.
1. La prima edizione del volume *
La prima edizione del volume, curata dall’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti” (Istoreto), fu realizzata nel 2003 grazie al contributo della Città di Torino. Era frutto di una ricerca condotta nell’ambito del programma comunale di conservazione e restauro delle lapidi e dei cippi storici, resa possibile grazie alla collaborazione dell’ufficio di Gabinetto del Sindaco, dell’Archivio storico della Città di Torino e del Settore statistica. Edizione 2003: Progetto di Ersilia Alessandrone Perona, Nicola Adduci, Luciano Boccalatte, Franco Francavilla, Giuliana Minute; Testi di Nicola Adduci, Luciano Boccalatte, Giuliana Minute. © edizione 2003 Città di Torino, Istoreto
L'edizione del 2015 – interamente rivista, aggiornata e ampliata – è il risultato dell’impegno congiunto di Istoreto e Museo diffuso della Resistenza ed è stata realizzata con la collaborazione dell’ANPI provinciale di Torino e di AFC S.p.a Servizi cimiteriali della Città di Torino, grazie al contributo del Comitato Resistenza e Costituzione della Regione Piemonte. Edizione 2015: Progetto e testi di Nicola Adduci, Barbara Berruti, Luciano Boccalatte, Andrea D’Arrigo; Coordinamento editoriale ed editing di Linda Lombardi; Ricerca iconografica di Chiara Colombini; Progetto grafico e impaginazione di Creative[z]one; Stampa Arti Grafiche San Rocco;Coordinamento organizzativo Chiara Cavallarin, Francesca Toso. © edizione 2015 Museo diffuso della Resistenza, Istoreto.
2. Prefazioni *
Memorie di pietra. Nomi, cognomi, vite incastonate nelle pietre e nei muri. Visibili e presenti, leggibili. Vite che ognuno di noi può ricordare, evocandone i nomi, semplicemente guardando i muri della città. Lapidi di marmo, inserite nel tessuto urbano e che ricordano i caduti della lotta di Liberazione, apposte dal Comune negli anni. Per ricordarle, in occasione del 70° anniversario della Liberazione, il Museo diffuso della Resistenza, in collaborazione con Istoreto, ha pubblicato un’edizione aggiornata del volume stampato nel 2003, dal titolo Che il silenzio non sia silenzio. Il volume è il risultato di una scrupolosa ricerca che, oltre a fornire informazioni su persone e avvenimenti cui le lapidi fanno riferimento, offre anche una chiave di lettura dei processi e dei modi di costruzione della memoria civica di quegli eventi. Una ricognizione di luoghi, alcuni molto conosciuti, altri meno, in cui si sono svolti eventi che hanno segnato la nostra storia e che non devono essere cancellati dallo scorrere del tempo. L’oblio può disgregare anche le pietre se non si ricorda. Ed è per questo motivo che la Città ha intrapreso da tempo un percorso di valorizzazione della memoria di cui questo testo fa parte. Un ampio progetto di ricerca, nella convinzione che la trasmissione di memoria serva per aumentare la consapevolezza di ciò che è accaduto trasformando la storia in storia comune, rendendolo sentire condiviso e pietra fondante dell’identità collettiva. Ciò che è stato non sia mai più. Il tempo non offuschi la drammaticità dei fatti. Solo con una condivisione e un passaggio profondo di conoscenza alle nuove generazioni potremo dirci un poco più sicuri, e più forti contro il germe di un male disumano e disumanizzante. È nostro dovere ricordare il sacrificio di chi si è opposto alle barbarie. Gli eroi della Resistenza rappresentano un importante esempio per tramandare i valori di giustizia, libertà e democrazia che sono alla base della nostra Costituzione. Inciderne i nomi sulla pietra è un modo per onorare la vita di chi, a questa idea, sacrificò l’esistenza.
Piero Fassino Sindaco della Città di Torino
È un anno sicuramente impegnativo quello che stiamo vivendo: il 70° anniversario della Liberazione dal nazifascismo e l’inizio della nuova Italia democratica e libera, sancita dalla sua Costituzione. Un anno nel quale il Comitato per l’affermazione dei valori della Resistenza e dei principi costituzionali, del quale mi onoro essere Presidente, sta realizzando alcune importanti iniziative con lo scopo di richiamare all’attenzione dell’attuale Società i valori che più si espressero nella lotta resistenziale: quelli della libertà, della pace, della tolleranza, del rispetto. Un Comitato che, fin dalla sua costituzione, nel 1976, ha operato per ridare dignità e onore alla memoria di quegli anni, dal 1943 al 1945, in cui l’opposizione al nazifascismo, tra tragedie personali e collettive, seppe gradualmente riportare gli Italiani verso la conquista del bene più prezioso che ogni Società deve perseguire: la libertà, uccisa per vent’anni e più dal regime. Ma “un futuro di giustizia ha bisogno di memoria”, si legge sulla lapide di Maria Teresa Gorlier, giovane staffetta valsusina brutalmente uccisa nella Caserma di Cesana Torinese da un tedesco. Parole incise in modo indelebile su una lapide: una lapide, semplice lastra di marmo o di pietra che, da sempre, in ogni tempo e spesso in ogni cultura, è in grado di trasmettere il ricordo, la memoria. E che va perciò preservata dai rigori del tempo, dalla polvere che tende a coprire, a cancellare. È proprio partendo da questa consapevolezza che il Comitato per l’affermazione dei valori della Resistenza e della Costituzione ha assunto l’impegno, richiesto dall’ANPI e dalle Associazioni che tutelano il ricordo della Resistenza partigiana, di ridare alle tantissime lapidi presenti nella città il segno tangibile del ricordo, del rispetto. Un’operazione di “cura” e di pulizia verso le lapidi che raccontano pezzi di storia e anche pagine drammatiche di vita. Lapidi che ognuno di noi incontra quando gira per le vie della città di Torino, ma anche nei luoghi spesso più impervi delle nostre montagne che videro molte delle azioni partigiane. Italo Calvino, nella prefazione del 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno, disse che la Resistenza rappresentò “la fusione tra paesaggio e persone”: “una storia sola si sdipanava dai bui archivolti della Città vecchia fin su ai boschi; era l’inseguirsi e il nascondersi d’uomini armati”. E di donne, alcune anche armate. In quel darsi alla macchia, in quel salire in montagna, in quel “prendere i sentieri dei boschi”, ci fu nei giovanissimi partigiani e partigiane il desiderio di rifondare se stessi e la società in cui vivevano. Una rinascita morale e politica, guidata prevalentemente dalle nuove generazioni, quelle che la scuola del regime aveva tentato – senza riuscirvi – di plasmare a sua immagine e somiglianza. Molti di loro pagarono con la vita. A tutti loro, che vissero una stagione sicuramente esaltante ma spesso breve, va il ricordo in questo 70° anniversario della Liberazione. L’attività di cura alle lapidi esistenti nel territorio torinese sarà accompagnato da questa pubblicazione che costituisce un’ulteriore salvaguardia della Memoria.La guerra entrò nelle case, si sparò negli androni, si uccise nelle strade, mentre in alcune parti della città vere e proprie esecuzioni collettive aggiunsero orrore all’orrore, come ben testimoniano ad esempio il Sacrario del Martinetto o il Pian del Lot, dove si consumò l’eccidio della più sanguinosa rappresaglia compiuta dai nazisti sul territorio cittadino, con la fucilazione di 27 giovani prelevati dal carcere Le Nuove e fucilati la mattina del 27 aprile 1944. Ogni lapide racconta una personalissima storia, una vita stroncata da un colpo di fucile, da una corda al collo, da un cecchino appostato che spia movimenti e aspetta il momento giusto. Ogni lapide è il segno di un dolore familiare: ma nello stesso tempo ricorda che ogni sacrificio fu compiuto in nome di un ideale condiviso che ebbe come obiettivo dominante quello della libertà. Ricordava la partigiana Ernestina Valterza in alcune frasi scritte nel suo diario: “sognavo, come tanti italiani, di andare ancora senza timore per gli spazi della terra”. Storie personali per ideali condivisi. Sacrifici individuali per la costruzione della Democrazia. Una lapide, un nome, una persona: per non dimenticare. Perché il sacrificio non sia stato invano. Per far capire a chi passa nelle strade e sofferma la sua attenzione su quelle pietre incise che ogni atto libero consentito dall’attuale Società si basa sulla legge fondamentale dello Stato per la quale quelle lapidi si resero necessarie. Giuliano Vassalli, uno dei padri fondatori della nostra Repubblica, scrisse che la memoria non è tutto, ma è alla base di tutto: alla base della nostra libertà, della nostra Democrazia, della nostra Costituzione. Il rispetto della Memoria e la volontà di conservarla come un bene prezioso sono i simboli stessi della coesione di una collettività, di uno Stato che tutela la sua Storia per assicurare un futuro di giustizia ai suoi cittadini.
Antonino Boeti Presidente del Comitato per l’affermazione dei valori della Resistenza e della Costituzione e Vicepresidente del Consiglio Regionale del Piemonte
A settant’anni dalla Liberazione, le lapidi e i cippi presenti nella città continuano a trasmettere memoria e occasioni di ricostruzione del passato, soprattutto per i giovani e gli studenti delle scuole. La loro diffusione su tutto il territorio di Torino segnala intanto il radicamento della lotta di Liberazione, la presenza di un esercito diffuso di partigiani e resistenti e il riconoscimento popolare delle sue vittime e dei suoi combattenti. Il Comune di Torino nell’immediato dopoguerra ha fatto un lavoro straordinario che ha impegnato l’Amministrazione, gli Uffici tecnici, il Corpo dei Vigili Urbani, in un rapporto complesso coi cittadini, i famigliari dei caduti e delle vittime. La Giunta Popolare, costituita nel 1945, ha saputo rappresentare e raccogliere i sentimenti della popolazione per fissare la memoria e onorare i caduti, trasformando il dolore privato delle famiglie e dei sopravvissuti in un segno pubblico di riconoscimento e riconoscenza. Le lapidi sono dunque il risultato di un impegno collettivo che costruisce i segni della memoria per il futuro. Grazie a questo patrimonio, si possono percorrere momenti, fasi, situazioni della lotta partigiana come una grande trama che sottende la città e che affiora nei semplici riquadri delle lapidi. La lettura di questa trama offre spesso alle classi degli istituti scolastici la possibilità, a partire dalle lapidi, di ricostruire biografie, vicende, sofferenze, barbarie perpetrate da fascisti e nazisti che, oltre che nel tempo, trovano vita negli spazi conosciuti e acquistano quindi concretezza e un vissuto immaginabile. Il Campo della Gloria del cimitero monumentale si presenta pertanto come la sintesi celebrativa di una battaglia di popolo che si è svolta nei quartieri, nei borghi, nelle vie, nei luoghi di lavoro della città. È parso chiaro allora agli Amministratori e alla città che un solo sacrario non bastava a raffigurare i legami e il coinvolgimento della popolazione in quell’esperienza terribile ed eroica. La scelta di allora ci permette ancora oggi di ricostruire e rendere visibile, negli spazi di tanta parte della città, la storia del nostro Paese. Di aver pensato al futuro dobbiamo essere a loro riconoscenti. Questi sono i motivi per cui nel 70° anniversario della Liberazione, l’ANPI ha insistito perché fosse ripubblicato il libro del 2003 e per un intervento di manutenzione e restauro delle lapidi. Le sezioni dell’ANPI hanno censito le lapidi che esigono un intervento di pulizia, di ripittura o di ripristino di elementi. È un patrimonio ai nostri iscritti ben noto e da loro curato, con la posa dei fiori in occasione delle ricorrenze e con l’organizzazione delle cerimonie. Gli impegni assunti dalle Amministrazioni non sono rivolti solo a celebrare una scadenza, ma a rinnovare l’efficacia di uno straordinario strumento per la memoria e la conservazione di uno spirito civico di condivisione e partecipazione di valori e di aspettative per il futuro. L’ANPI è pertanto grato al Comune di Torino e al Comitato Resistenza e Costituzione della Regione Piemonte per la sensibilità con cui sono intervenuti.
Maria Grazia Sestero VicePresidente dell’ANPI Provinciale di Torino
Il Museo diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà, aperto al pubblico nel 2003 su iniziativa della Città di Torino, ha tratto la sua origine proprio dall’impegno a favore della valorizzazione dei luoghi di memoria. L’allestimento permanente del Museo pone al centro la città durante il decennio 1938-1948 e le testimonianze dei protagonisti di quella stagione, con un continuo rimando ai luoghi che furono teatro di quelle vicende. Riprendendo il concetto di “museo diffuso” – coniato dall’architetto milanese Fredi Drugman negli anni Settanta, per sottolineare lo stretto rapporto che intercorre fra i musei e il territorio – il Museo non si esaurisce negli spazi espositivi di corso Valdocco. Accanto al viaggio virtuale che il visitatore può compiere nell’allestimento, i luoghi della memoria cittadina diventano altrettante tappe di un percorso reale che il pubblico è invitato a svolgere nel tessuto vivo della città. Attraverso la riscoperta di quei luoghi, oggetto di attività e visite guidate offerte a gruppi scolastici e di adulti, si portano in luce i molteplici frammenti di storia che la città racchiude, per offrirli soprattutto a coloro che, per età e provenienza, non ne hanno consapevolezza e memoria. Un percorso fra le memorie dei luoghi ci aiuta a ritrovare frammenti della nostra identità: inglobati, trasformati dalla crescita urbana, quei segni, ancora presenti nei quartieri che attraversiamo ogni giorno, danno concretezza a vicende e storie che si ricompongono nel quadro della Storia con la maiuscola. Quella storia è intorno a noi e nessuna generazione può considerarsi indipendente dal proprio passato: occorre sapere di quale storia siamo il prodotto, utilizzando le memorie come occasione di riflessione, di arricchimento e di consapevolezza civica. Le lapidi costituiscono un caso molto particolare nell’ambito della memoria cittadina: si situano in una dimensione complessa, che include la pietà e il dolore privato, ma anche la commemorazione ufficiale, fino alla distrazione dei giorni nostri. Presenti in modo capillare su tutto il territorio cittadino, la loro percezione e il loro significato si sono andati progressivamente attenuando, limitandosi, in alcuni casi, a qualche cerimonia commemorativa. Per questi motivi, nel 70° anniversario della Liberazione, il Museo e l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza si sono fatti promotori della riedizione di un repertorio ragionato delle lapidi cittadine, aggiornato e arricchito nei contenuti. La presente pubblicazione vede la luce contestualmente a un completo lavoro di restauro delle lapidi, realizzato dall’ANPI con il sostegno della Città di Torino, ed è stata realizzata grazie al contributo del Comitato Resistenza e Costituzione della Regione Piemonte.
Guido Vaglio Direttore del Museo diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà
3. Nota introduttiva*
Sotto i portici di via Po, lungo le vie e le piazze del centro, ma anche nelle strade di periferia, da Mirafiori a Madonna di Campagna, un visitatore non troppo distratto noterà la presenza di numerose lapidi incastonate nei muri delle case. Sono lapidi molto semplici di forma uguale: un rettangolo di marmo grigio porta scolpito al centro un cognome e un nome; spesso, ma non sempre anche l’indicazione della professione; in alto la dedica uguale per tutte: “Al martire dell’eterna libertà”; in basso una fascia di bronzo su cui è incisa la frase: “Caduto nella lotta di liberazione contro il nazifascismo 1943-1945”. Sotto la lapide un piccolo vaso in cui la pietà dei familiari, della popolazione, delle associazioni mette qualche fiore e un fiocco tricolore in occasione della celebrazione del 25 aprile. Queste lapidi, apposte dal Comune negli anni immediatamente successivi alla Liberazione, sono le più numerose. Ne esistono altre, sempre a cura dell’amministrazione comunale, che raccolgono più nomi e con tipologie differenti rispetto a quella sopra ricordata. Esistono nel tessuto cittadino anche altre lapidi, collocate per iniziativa di soggetti diversi dal Comune, di cui in questo lavoro non ci occuperemo, anche se in buona parte già censite, perché essendo state predisposte con criteri molto diversi, avrebbero richiesto per il completamento dell’indagine un prolungamento della ricerca non compatibile con i tempi e le risorse disponibili. Speriamo in una fase successiva di poter completare il lavoro per altro già avviato. I caduti ricordati dalle lapidi qui censite sono 367. Questo il totale che siamo riusciti a ricostruire, sapendo che si tratta di una contabilità resa incerta a settanta anni di distanza dalle trasformazioni del tessuto urbano, da qualche vuoto documentario, da vuoti di memoria che non sono facilmente interpretabili. Per molte ragioni. Ad esempio, non tutti i caduti della prima fase della lotta resistenziale per motivi che solo in parte siamo riusciti a chiarire, sono entrati nel computo finale. Per un altro verso abbiamo potuto constatare che le ristrutturazioni o le ricostruzioni di stabili o di interi isolati hanno cancellato anche qualche parte di questa memoria cittadina. In qualche caso si è potuto ripristinare la lapide, in altri non è stato possibile ed è rimasta solo qualche traccia di archivio, in altri si è dovuta constatare la scomparsa di ogni riferimento. Già. l’oblio disgrega anche le pietre se non c’è una memoria attiva che vigila e ricompone ciò che il tempo inesorabilmente consuma. Raccogliendo la richiesta dell’amministrazione comunale e la sollecitazione personale del sindaco, nel 2003 abbiamo cercato di dare il nostro contributo alla conservazione di questa memoria. Con un lavoro attento e non facile, grazie a un lavoro preparatorio svolto dagli uffici tecnici del Comune e alla piena collaborazione dell’Archivio storico e dei servizi anagrafici, i nostri ricercatori hanno cercato di ricomporre l’elenco dei caduti ricordati dalle lapidi, di determinarne la collocazione nel territorio, di comparare gli elenchi disponibili e non sempre coincidenti, e soprattutto hanno cercato di fornire alcuni elementi biografici che integrassero le pochissime informazioni ricavabili dalle lapidi stesse. Un lavoro, questo, difficile che ha comportato l’integrazione di fonti diverse, a cominciare dalla banca dati che il nostro Istituto con gli altri Istituti della regione ha costruito sul partigianato piemontese. Le informazioni raccolte sono state anche confrontate con la letteratura esistente e il tutto è confluito nelle schede che sono state presentate. Il risultato, ci rendiamo conto, non è perfetto, o almeno non è quale un ricercatore scrupoloso vorrebbe che fosse e cioè completo ed esaustivo in ogni sua parte. Ma come sa chi abbia provato a misurarsi sul piano della ricerca su temi riguardanti il periodo di cui trattiamo, un margine di incertezza più o meno ampio è il prezzo che si paga alle insicurezze, alle fluidità, agli imprevisti di anni pieni di accadimenti in cui il caso, così come le vite di tanti protagonisti e di tante comparse, era affidato al gioco imperscrutabile del destino. Si poteva sparire nel nulla, come in effetti è successo ad alcuni a cui non siamo riusciti neppure a dare un nome. Oppure in altri casi non siamo riusciti ad andare oltre i puri dati anagrafici. Malgrado questi limiti oggettivi, la ricerca, sempre perfettibile se altre fonti si rendessero disponibili, ci pare che offra al lettore delle cose interessanti e faccia percepire gli intrecci di destini che arrivano all’appuntamento con la morte per strade diverse. Così ci pare interessante la distribuzione sul territorio di questi caduti per la libertà; abbiamo cercato di rappresentare visivamente queste densità spaziali e temporali; di ricostruire il profilo di questi caduti e le situazioni che li hanno portati al passaggio estremo. Da questo punto di vista sono risultate preziose le inchieste verbalizzate dai vigili urbani, a cui l’amministrazione comunale ha affidato l’istruttoria prima della decisione per l’assegnazione della lapide. Questi materiali ci restituiscono informazioni altrimenti perdute, e ci dicono molto sui meccanismi della memoria dei testimoni che vengono sentiti a non grande distanza dagli eventi. Il loro coinvolgimento diretto o come testimoni di fatti segnati dal dramma lasciano a volte segni indelebili nella memoria e producono particolari rappresentazione degli eventi. Più che le morti di persone che hanno avuto ruoli di rilievo nella lotta partigiana, e che sono in qualche modo “note” attraverso una memoria tramandata dal racconto storico o letterario, colpisce ciò che viene detto della morte, del sacrificio di tanti comprimari, a volte del tutto casualmente coinvolti, ma non per questo meno degni di essere ricordati, di essere tolti all’oblio, e collocati in uno spazio di memoria pubblica. Tra i tanti percorsi possibili vorrei richiamare l’attenzione sull’avvio del processo che porterà alla decisione da parte dell’amministrazione comunale del dopo liberazione, quella guidata dal sindaco Roveda, di ricordare in forma pubblica i caduti della città. Come ci dicono le note scritte da Nicola Adduci (a cui va il nostro ringraziamento per la tenacia e serietà con cui ha condotto questo lavoro non facile), l’amministrazione comunale, pressata dai mille problemi che la liberazione e la ricostruzione portano con sé, in un primo momento è orientata a dare una risposta “tradizionale” di memoria pubblica predisponendo all’interno del Cimitero generale della città uno spazio dedicato ai caduti della libertà. Questa iniziativa però non esaurisce, non può esaurire una domanda di memoria che esiste dentro il tessuto della città, con iniziative che avvengono nell’estate e nell’autunno 1945 nelle strade e nelle piazze di Torino per iniziativa di soggetti diversi: compagni di lotta delle vittime, parenti, amici di borgata o di fabbrica, organismi politici, associazioni. La pietà popolare incomincia a segnare il territorio con lapidi di diversa fattura e natura con una tale intensità che il Comune è costretto a intervenire di fronte a un fenomeno diffuso e forse anche un po’ disordinato. Verrà trovata la formula delle lapidi “uniformate” di cui si è detto, assumendo su di sé sia la verifica delle procedure sia l’onere dell’intervento. La soluzione adottata è un po’ spartana; d’altra parte le casse del Comune non consentivano di più. È in qualche modo uniformante perché riduce a una tipologia unica le diverse soluzioni che spontaneamente erano state trovate, ma che creavano però problemi di gestione e di conservazione. Insomma qualcosa si perde della risposta, del bisogno di memoria che veniva dal basso. Ma forse ciò che importa rilevare è che non si perde il riconoscimento a una memoria distribuita sul territorio: la lapide, il segno della memoria incastonato nel luogo più vicino al punto in cui la morte ha colpito, è un segnale forte che rinvia al significato che quella guerra ha avuto per la popolazione. Una guerra che è entrata nelle case, che ha colpito dentro le pieghe degli aggregati sociali, dei quartieri, delle borgate, dei luoghi di lavoro e che dunque non può essere rappresentata in un solo luogo, come è avvenuto per le altre guerre, ma che deve riconoscere e far riconoscere la sua dimensione privata e civile insieme. Il riconoscimento pubblico nella dimensione del luogo deputato al cordoglio e alla memoria non è sufficiente a rendere il senso dell’esperienza vissuta che si pone nell’intersezione, nel punto di sutura tra pubblico e privato e fa dell’esperienza drammatica del 1943-1945 un qualcosa di unico, di non assimilabile ad altre esperienze di memoria pubblica perché non rappresentabile da un solo soggetto politico. Il Comune, la struttura pubblica più vicina alla popolazione, questo lo capisce e con il suo intervento interpreta il fenomeno che ha di fronte e il movimento che l’ha prodotto: un’esperienza che ha bisogno dei luoghi della memoria, il più vicino possibile ai luoghi della vita così come è stata la lotta di liberazione. In occasione del settantesimo anniversario della Liberazione in collaborazione con il Museo diffuso della Resistenza, della guerra, della deportazione, dei diritti e della libertà abbiamo voluto pubblicare una nuova edizione riveduta e corretta. Il tempo trascorso e l'apporto di nuovi percorsi di ricerca ha spinto i curatori a modificare l’impostazione grafica del precedente volume del 2003 per poter valorizzare nel miglior modo possibile gli esiti del lavoro compiuto. Si segnalano i due interventi più significativi. Il primo riguarda la riorganizzazione delle informazioni riguardanti le persone ricordate dalle lapidi; si è pensato di sostituire il criterio alfabetico adottato nel 2003 con il criterio cronologico. È sembrato cioè più opportuno fornire al lettore l'andamento della sequenza dei caduti in accordo con il succedersi delle vicende che hanno caratterizzato la guerra di liberazione in città nei 20 mesi. Il che a nostro avviso può anche facilitare la riflessione sul percorso resistenziale che non ha affatto un andamento lineare e spingere a ragionare o a interrogarsi su come sono andate le cose. Certo quello dei caduti è un indicatore terribile perché si compone del sacrificio di decine, centinaia di vite. Ma è anche un indicatore di verità perché quelle morti quelle uccisioni, e oggi quelle lapidi, fissano nel tempo i passaggi di una storia che può essere recuperata nei suoi aspetti più coinvolgenti proprio a partire dai nomi e dalle date scolpite sulle lapidi. Un secondo elemento nuovo è costituito dai nomi recuperati in questi anni soprattutto grazie alle ricerche condotte da Nicola Adduci, di cui il nostro Istituto ha recentemente pubblicato una storia straordinaria per ricchezza di informazioni e profondità di sguardo, dedicata al fascismo e ai fascisti repubblicani attivi nel Torinese nei due ultimi anni di guerra. Si tratta di decine di nomi recuperati da un silenzio troppo a lungo durato e che attendono di trovare una forma che li restituisca al lavorio della nostra memoria. L’elemento di rilievo da ricordare è che questi nominativi si addensano nella fase iniziale dell’occupazione tedesca e nella fase finale, nelle giornate dell’insurrezione e della liberazione. L’eccezionalità degli eventi e le vicende conflittuali che li hanno segnati hanno fatto sì che solo una parte delle persone coinvolte – e che avevano pagato con la vita quel loro esserci – trovassero posto nella memoria di quei passaggi drammatici. Solo uno sforzo e un impegno di ricerca scrupolosa e paziente è riuscita a recuperarli, compiendo a nostro avviso un atto civico di grande valore, e nello stesso tempo un atto di conoscenza di primo rilievo poiché ci consente di riconsiderare su basi diverse due passaggi decisivi del percorso della Liberazione. Si pone ora il problema di come ricuperali appieno alla memoria della città: per favorire questo recupero si è pensato di incominciare a riportarne i nomi in questa pubblicazione, quasi come appartenenti a delle lapidi virtuali che attendono di trovare riscontro nella realtà. Non è solo un atto di giustizia storica, ma è un atto di rispetto verso quella memoria che pure a tanti anni di distanza costituisce un elemento fondante dell’identità di questa nostra città.
Claudio Dellavalle Presidente dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea
4. Le lapidi ai caduti per la libertà: un breve profilo della memoria pubblica *
Fra i numerosi problemi che all’indomani della liberazione si pongono all’attenzione dell’Amministrazione civica, vi è anche quello – assai delicato – delle onoranze ai caduti nella lotta per la libertà appena conclusa. Nell’affrontare questo aspetto, le autorità municipali mostrano di avere fin dall’inizio un’idea della memoria soprattutto “celebrativa”, in continuità con la ormai consolidata tradizione dei sacrari della Grande Guerra e di ciò che essi sottendono. E infatti il Municipio prende l’iniziativa, formalizzata con una delibera del 21 maggio 1945, di costruire presso il Cimitero generale un Campo della gloria “della capacità di oltre 700 fosse” con al centro “un ricordo simbolico in pietra con bassorilievi allegorici”[1], che diverrà un vero e proprio monumento[2]. Ciò costituisce sicuramente un impegno economico notevole, cui va ad aggiungersi l’esumazione dei patrioti caduti per i quali “non è dato per ora precisare l’entità dell’onere, non essendo noto né il numero delle salme da esumare, né la località in cui sono sepolte”[3]. Che questa sia l’unica forma possibile (e degna) per commemorare le vittime del nazifascismo sembra cosa scontata e infatti l’iniziativa della Città è resa possibile “interpretando il sentimento di tutta la cittadinanza [nel] dare alle salme dei gloriosi Caduti per la libertà una sepoltura degna che ne ricordi il nome e le gesta alle generazioni future”[4]. Anche se apprezzato, questo orientamento non sembra però tenere in conto altre possibilità e finisce dunque col rispecchiare solo in parte quanto va maturando all’interno della comunità cittadina. Con il passare dei giorni, questa differente percezione fra i due soggetti fa apparire insufficiente il progetto municipale. E infatti, la linea assunta dalle autorità verso la questione entra progressivamente in crisi con la diffusione sempre più ampia nella comunità cittadina di iniziative spontanee di parenti e amici dei caduti, che prendono a segnare con fiori, piccole lapidi o targhe le vie e le piazze teatro della violenza nazifascista. Le semplici cerimonie tenute un po’ dovunque in città, finiscono con l’assumere – com’è facile immaginare – una dimensione al limite tra il privato e il pubblico, rendendo sempre più evidente l’esigenza di non separare i luoghi della memoria da quelli della vita quotidiana. Il successo delle commemorazioni spontanee sembra attribuibile a due elementi, sottovalutati nei primi tempi dalle istituzioni; il primo è costituito dalla possibilità per i familiari e gli amici dei caduti di poter manifestare il dolore, proprio della sfera privata, in forma visibile e condivisa nelle strade delle borgate. Il secondo elemento è dato dalla partecipazione allargata che suscitano tali cerimonie e che contribuisce a renderle proprie anche della sfera “pubblica”. La presenza della collettività va ben oltre la cerimonia stessa, assumendo il dolore privato a simbolo delle proprie sofferenze e ciò rimanda a un bisogno profondo e diffuso di riaffermazione dell’identità comunitaria. A poco più di un mese dalla liberazione, appare ormai chiara la portata del processo in atto un po’ in tutte le borgate di Torino e ciò contribuisce a far maturare tra le autorità cittadine l’intenzione di intervenire rapidamente nella questione. Il 30 maggio 1945, la Giunta popolare vota una delibera in cui si approva “l’iniziativa di acquistare e far applicare nei singoli luoghi divenuti sacri alla memoria di tutti gli italiani […] apposite lapidi ricordo in marmo sulle quali vengano incisi i nomi dei Caduti a perenne ricordo del loro sacrificio. A tale scopo si rende necessario procedere – per intanto – all’acquisto di n. 50 lastre marmoree”[5]. A questo primo provvedimento, il 22 giugno 1945 l’Amministrazione – sempre più consapevole dell’ampiezza del fenomeno – fa seguire un ulteriore passo rivolgendosi al comandante dei vigili urbani per conoscere il numero dei caduti in città durante i venti mesi di lotta partigiana. Contrariamente a quanto avvenuto con la delibera per l’esumazione dei patrioti da traslare nel Campo della gloria, questa volta il sondaggio costituisce un tentativo di previsione di spesa che chiarisce subito lo scarto esistente tra il desiderio di patrocinare fino in fondo l’iniziativa spontanea in atto e le disponibilità economiche del Municipio, già fortemente esposto nell’altra iniziativa commemorativa, finendo con lo spiegare anche le scelte operate successivamente nella vicenda. Pochi giorni più tardi, il 3 luglio, il comandante dei vigili urbani trasmette un elenco in ordine alfabetico comprendente 224 nominativi[6]; su questa base, il 7 dello stesso mese, dopo aver calcolato la probabile entità dell’ulteriore spesa, l’Amministrazione civica procede nell’operazione, predisponendo una prima bozza di regolamento per affrontare la materia[7]. Sul finire del mese viene diffuso un comunicato stampa in cui si rende noto come “al fine di ricordare le vittime del nazifascismo cadute nel territorio della città [le ultime cinque parole sottolineate nel testo, ndr] verranno apposte lapidi commemorative nei luoghi del sacrificio. Si pregano le famiglie dei Caduti di voler comunicare al Municipio divisione Gabinetto le notizie necessarie relative al loro Congiunto”[8]. Trascorrono ancora altri due mesi e il 12 settembre 1945 precisando che “i fondi occorrenti saranno stanziati in occasione di una prossima modificazione del bilancio stesso”, la Giunta popolare delibera ”l’affidamento […] della posa delle targhe come sopra occorrenti alla ditta Anatolio Brandaglia, alle condizioni della sua offerta e della lettera d’invito, per un ammontare presunto di L. 350.000”[9]. Inizialmente, però, questo provvedimento non viene reso pubblico attraverso la stampa. È probabile, infatti, che nei mesi intercorsi tra la presentazione al sindaco dei nominativi dei caduti e l’approvazione della delibera stessa siano emerse già le prime lacune nell’elenco degli aventi diritto; in questa fase, dunque, la pubblicizzazione dell’iniziativa appare forse inopportuna, poiché c’è il timore che il numero reale dei caduti in città durante il periodo resistenziale possa risultare tale da non essere economicamente sostenibile nell’immediato[10]. Al prefetto che nell'ottobre 1945 telegrafa per conoscere con urgenza il numero degli uccisi dai nazifascisti a Torino, il sindaco - nonostante abbia già a disposizione l'elenco dei vigili urbani - preferisce comunicare “che sono ancora in corso gli accertamenti per stabilire quanti effettivamente siano stati i civili caduti in seguito a rappresaglie nazifasciste. Aggiungendo come ”dai dati raccolti risulta però che il numero delle vittime supera i duecento”[11]. Questo piccolo escamotage per guadagnare un po’ di tempo e intanto avviare l’operazione, se da un lato evita per il momento la crescita incontrollata della spesa, dall’altro, però, non permette di ridimensionare il fenomeno delle celebrazioni spontanee che è facile immaginare risultino sempre più imbarazzanti per il Municipio, poiché oltre a porsi su un piano di concorrenzialità e a essere palesemente in contrasto con i regolamenti comunali, rischiano alla lunga di sfuggire a ogni controllo. A questo punto, dopo due settimane d’incertezza, l’Amministrazione decide di uscire allo scoperto con un secco comunicato stampa in cui rende noto che “il Municipio, al fine di evitare iniziative particolari, […] sta provvedendo al collocamento di lapidi di tipo unico a ricordo dei Caduti per la libertà nel territorio cittadino”[12]. La dichiarazione pubblica, molto probabilmente, pone un freno alla diffusione incontrollata delle iniziative spontanee, ma al tempo stesso finisce – come temuto – con il convogliare sul Comune l’attenzione di quanti, tra parenti, amici, partiti e associazioni desiderano ricordare un proprio caduto. E infatti, cinque mesi dopo, l’ingegnere capo della divisione Lavori pubblici nel riassumere al capo di Gabinetto l’impegno economico sin lì sostenuto dall’Amministrazione parla di “lavori relativi alla provvista e posa di N. 118 lapidi (£. 350.000) e N. 30 cippi (£. 330.000)”[13]. Nel giugno 1946, tre mesi dopo, dovendo in concreto fare i conti con i fondi a disposizione, l’ingegnere capo segnala la difficoltà in cui si trova in quanto “continuano a pervenire richieste di applicazione di nuove lapidi, né il ritmo dà sintomi di rapido esaurimento. Poiché la disponibilità di fondi è fissata con apposita deliberazione per le lapidi e per i cippi complessivamente in lire 350 mila più 330 mila, uguale lire 680 mila, ne risulta che, allo stato attuale dei lavori, la possibilità di ulteriori spese è ridotta a circa lire 45 mila; detta somma è facilmente assorbibile con l’eventuale applicazione di altre 10/12 lapidi oppure di altre 4 lapidi con cippo”[14]. Davanti a questa nota preoccupata, il capo di Gabinetto non può far altro che confermare la difficoltà del momento, dichiarando di non essere in “grado di stabilire se le disponibilità di fondi siano sufficienti per far fronte all’eventuale richiesta di lapidi che potranno essere avanzate al Comune”[15]. È questo il quadro all’interno del quale vengono gettate le basi non solo per la salvaguardia della memoria, ma – inevitabilmente – anche per una sua selezione. Quest’ultimo aspetto, come vedremo più avanti, risulta assai interessante per cogliere quei meccanismi più profondi all’origine dell’esaltazione o della rimozione collettiva di alcuni episodi del periodo resistenziale, di cui il Municipio diviene quasi all’improvviso uno dei protagonisti. All’atto dell’assunzione in carico della questione, le preoccupazioni dell’Amministrazione civica sembrano essere almeno tre. La prima è quella di definire precisamente il limite territoriale entro cui svolgere la propria azione e la tipologia dei caduti da onorare; sin dall’inizio viene stabilito nel regolamento che la concessione delle lapidi è rivolta esclusivamente ai caduti per libertà all’interno dei confini amministrativi della città. Ma questa prima disposizione, apparentemente ovvia, si scontra nel corso dei mesi con l’estrema articolazione delle situazioni create dalla guerra, suscitando malumori sia tra i familiari di partigiani nati o residenti nel capoluogo ma uccisi altrove, sia – in qualche caso – tra gli ebrei torinesi aventi congiunti deportati e annientati nei campi di sterminio. In quest’ultimo caso, nella richiesta al sindaco di considerare i propri cari alla stessa stregua degli altri caduti, concedendo lapidi “come tutte le altre”, appare implicito non solo il desiderio di non subire una nuova discriminazione proprio nel delicato ambito della memoria, ma anche quello di essere riconosciuti parte della comunità a pieno titolo, anche nei dettagli.
“Nei giorni scorsi – scrive un familiare di due vittime dei campi di sterminio – sono stati degnamente onorati e ricordati i Morti della Liberazione, però non tutti…Ad esempio: mia Madre di anni 67 e mia Nonna di 89, selvaggiamente prelevate dalla loro abitazione torinese e stroncate in Germania perché di religione ebraica! Oso affermare che anch’Esse appartengono ai Martiri della Libertà e alle vittime della persecuzione. Il prossimo 23 maggio saranno due anni che queste due povere Donne hanno iniziato il loro calvario, finito poi nel luglio del ’44. Ad onorare la memoria […] perché non avranno mai una tomba e noi mai il conforto di recare ad essa un fiore […] oso chiedere – non s’intende a spese del Comune – il permesso di collocare il 23 Maggio prossimo una lapide come tutte le altre, sul portone della loro abitazione o nell’interno di essa. Ci terrei però poterlo fare come per tutti gli Altri con la dicitura ‘Il Municipio dispose’”[16]. Il problema posto dalle famiglie di queste categorie di vittime evidenzia un limite nel binomio “caduto per la libertà - luogo di morte”, che mette sicuramente in difficoltà l’Amministrazione civica. La legittimità morale delle obiezioni mosse nei confronti di tale scelta, obbliga le autorità comunali ad un compromesso, sia pure senza oneri a carico; vale a dire la possibilità che le famiglie collochino negli androni delle case le lapidi in memoria dei propri cari, caduti in circostanze e luoghi diversi da quelli previsti in precedenza nel regolamento[17]. Con il passare del tempo, la posa di lapidi negli androni diviene una sorta di valvola di sfogo per le situazioni particolari che si presentano nel corso dei mesi e che appaiono di difficile soluzione. Una di queste riguarda diversi fucilati del Martinetto, commemorati nella grande lapide collettiva e perciò esclusi dalla concessione di pietre singole. L’unica possibilità per venire incontro al desiderio di alcune delle famiglie interessate a ottenere una lapide individuale, rimane quella di lasciarla apporre nell’androne delle proprie abitazioni. A partire dai primi di ottobre del 1945[18], intanto, anche nei luoghi di lavoro inizia a manifestarsi il desiderio di ricordare i propri caduti. Pur garantendo il pieno riconoscimento attraverso la partecipazione ufficiale alle cerimonie inaugurali, l’Amministrazione civica precisa, anche in questo caso, di non potersi assumere oneri economici. Inoltre, pone la condizione che la pietra commemorativa venga murata all’interno degli edifici o nei cortili dei luoghi prescelti. Si risolve così una questione che riguarda tra i tanti interessati anche nomi illustri dell’antifascismo torinese, ad esempio Emanuele Artom, caduto in Val Pellice, cui viene dedicata una lapide all’interno della sala consultazione della Biblioteca nazionale. Una seconda preoccupazione dell’Amministrazione civica, che accompagna l’intero arco temporale della vicenda, riguarda la gestione complessiva di tutta l’iniziativa. Non sfugge infatti alle autorità l’importanza dell’efficienza, in particolar modo negli aspetti operativi, cosa su cui viene giocata una buona parte di credibilità, sia rispetto al ruolo che il Municipio aspira a rivestire dinanzi all’intera comunità cittadina, sia – se vogliamo – anche nell’ambito stesso della costruzione della memoria. A occuparsi dei molteplici problemi connessi con la posa di circa centocinquanta tra lapidi e cippi è – come abbiamo già accennato – la divisione Lavori pubblici, che svolge per oltre un anno una mole di lavoro quanto mai diversificata, vista la varietà delle questioni da risolvere che di volta in volta si presentano. È questa divisione, ad esempio, che in accordo con il sindaco, prende contatto con i cittadini che hanno già collocato una propria lapide[19], chiedendo di poter sistemare quella ufficiale a spese della Città, ma rimuovendo la precedente[20]. Attraverso le proprie articolazioni, l’Amministrazione riesce a svolgere con grande capacità i compiti previsti, seguendo la ditta esecutrice dei lavori per ciò che concerne lo stato di preparazione delle lapidi, predisponendo il calendario per la collocazione delle pietre già pronte, murando materialmente le lapidi, ma anche facendo correggere quelle sbagliate o intervenendo per rimuovere quelle dedicate a persone per le quali sono emersi elementi negativi dopo la posa della pietra. L’efficienza dimostrata dal Municipio nella gestione delle onoranze diviene – agli occhi della comunità – uno degli elementi decisivi nell’accettazione dell’intervento comunale. Il monopolio che le autorità cittadine si riservano nell’apposizione delle lapidi “pubbliche”, finisce con l’assumere un significato di legittimazione del ruolo del caduto. La stessa standardizzazione delle pietre commemorative, “di tipo unico”, comincia a essere percepita non come possibile elemento massificante ma anzi, come elemento di riconoscimento carico di un forte aspetto simbolico che viene colto dall’intera comunità man mano che le lapidi ufficiali iniziano ad apparire[21]. Le prime richieste di autorizzazione alla posa di lapidi private, che cominciano a giungere al sindaco sia pur sporadicamente, fin dai primi giorni del maggio 1945[22], costituiscono per l’Amministrazione civica il terzo problema, forse quello più complesso, poiché come abbiamo visto, all’inizio non viene presa in considerazione l’ipotesi di un impegno diretto nella questione. La maturazione di una nuova posizione, sull’onda degli eventi, costringe il Municipio a definire in tempi brevi prima un regolamento e in seguito, a fronte delle numerose richieste di riconoscimento, un percorso per la selezione delle domande e la raccolta delle informazioni sul caduto che si propone di commemorare. Non sfugge infatti alle autorità cittadine da un lato, la notevole attenzione da parte della comunità verso ogni suo singolo atto, dall’altro, con l’assunzione degli oneri e della regolamentazione di questi riconoscimenti, il ruolo di ufficialità ormai rivestito. Dopo aver stabilito i passaggi fondamentali per una procedura seria e al tempo stesso attenta[23], sul finire del settembre 1945, l’Amministrazione procede all’accoglimento e all’esame delle domande, avanzate nella stragrande maggioranza dei casi dai familiari delle vittime. Viene seguito un iter semplice ed efficace, che prende il via con un’istanza al sindaco[24] e prosegue poi con l’apertura di un’istruttoria. Si tratta in sostanza dell’affidamento ai vigili urbani delle sezioni rionali delle indagini sulle circostanze in cui ha trovato la morte il caduto per il quale viene richiesto il riconoscimento pubblico. La polizia urbana svolge con cura questo lavoro, che presenta grandi difficoltà dovute sia alla situazione generale, sia alla delicatezza dell’incarico ricevuto. Le indagini vengono condotte in molti casi ascoltando più testimoni e incrociando le informazioni raccolte; con uno stile scarno e per nulla retorico, i vigili restituiscono sovente nelle proprie relazioni la dimensione di alta drammaticità degli eventi sui quali hanno indagato, lasciando trapelare per i casi dubbi la possibilità di un supplemento d’indagine. Il passaggio dalla fase amministrativa a quella operativa apre una serie di problemi completamente nuovi di costruzione e selezione della memoria. Questa responsabilità non si esaurisce unicamente nella decisione di assegnare o meno la lapide, presa dal Municipio attraverso la divisione Gabinetto, ma sembra piuttosto il riflesso di un sentire comune e in ultima analisi di una scelta “politica”. In un suo saggio Remo Bodei sostiene che “l’oblio è altrettanto indispensabile alla memoria, quanto la memoria all’oblio”[25] e in effetti non si può non osservare come all’esaltazione dell’insurrezione, sottolineata dal gran numero di lapidi collocate, faccia da contraltare l’oblio di un altro momento del periodo resistenziale, quello oscuro delle settimane successive all’armistizio, quasi rimosso e percepito con evidente disagio. Nonostante siano molte le vittime dei tedeschi in quei giorni, sono pochissime le lapidi commemorative che ce le ricordano. Le istruttorie dei vigili urbani si limitano ad alcuni casi, per altri addirittura non si procede nemmeno nella raccolta delle informazioni. Risulta difficile accettare ai fini della memoria l’esaltazione di militari uccisi dai nazisti mentre fuggono, o la morte casuale di qualche cittadino colpito perché in possesso di una bicicletta; e ancor più difficile risulta commemorare i numerosi torinesi morti durante i saccheggi di magazzini e caserme avvenuti nei giorni dell’occupazione. Un solo tentativo di assegnare una lapide ad una giovinetta di appena quattordici anni uccisa dai tedeschi con altri durante la repressione di uno di questi saccheggi, viene archiviato dopo che i vigili urbani scoprono che “era figlia di un maresciallo della Gnr prelevato dai partigiani nel Comune di Rosta. Un fratello della medesima di 16 anni, faceva pure parte delle Brigate nere e la madre sua consta fosse una spia dei fascisti di via Asti”[26]. Un altro passaggio interessante, questa volta nell’ambito della costruzione della memoria, è quello relativo ai rapporti con le comunità rionali che sembrano giocare un importante ruolo interlocutorio nei confronti della Città. Talvolta esso si concretizza con un vero e proprio intervento riparatore verso un certo numero di vittime più o meno casuali dell’insurrezione. In questa dimensione, pur non essendoci una piena coincidenza con la realtà storica formale, sembra avere un suo peso l’elaborazione di una morale comunitaria che attribuisce ai morti delle proprie borgate lo status di caduti per la libertà. In questo ambito, dunque, matura quel riconoscimento di appartenenza post mortem alle formazioni partigiane nei confronti di un certo numero di caduti dell’insurrezione, acquisito poi come proprio dalle autorità comunali e divenuto patrimonio della memoria. Tale scelta permette alle famiglie di queste vittime – contadini, operai, casalinghe – che è facile immaginare in condizioni di vita assai difficili, di ottenere il massimo riconoscimento e conforto possibili, non solo per quanto riguarda il prestigio morale, spendibile nella propria borgata all’interno della dimensione delle relazioni comunitarie, ma anche dal punto di vista dei piccoli benefici economici connessi. Nel fare luce su questo passaggio che peraltro – e non può essere diversamente – sembra non aver lasciato tracce ufficiali all’interno delle singole istruttorie dei vigili urbani, s’impongono alcune riflessioni. Una di queste riguarda l’isolamento progressivo dei fascisti repubblicani dalla comunità cittadina che sembra esplicitarsi proprio nel riconoscimento di caduto per la libertà concesso non solo ai partigiani veri e propri, ma anche a quanti perdono la vita casualmente, durante le sparatorie che si scatenano improvvise nelle strade cittadine, per via dei colpi isolati dei cecchini fascisti o ancora, mentre tentano di soccorrere qualche ferito. Oltre ad essere un intervento riparatore, ciò sembrerebbe anche un modo per ribadire a priori la piena appartenenza di tutte queste vittime a quella dimensione di resistenza civile da cui sono esclusi solo i fascisti e da cui si può essere allontanati solo – come avviene in tre o quattro casi – se le voci raccolte nella borgata, le testimonianze e l’istruttoria dei vigili urbani dimostrano l’adesione e la collaborazione con il fascismo[27]. Il criterio con cui si ufficializza l’iscrizione di queste vittime al Corpo Volontari della Libertà appare basato sulla territorialità. In sostanza, il caduto viene ascritto alle formazioni partigiane operanti nell’area in cui è deceduto, ad esempio la brigata “Costa” della divisione “Torino”, per la zona nord della città o più sovente le brigate Sap, che per loro stessa natura agiscono nelle borgate d’origine o limitrofe. Tale pratica, che si risolve in via informale a livello di singole comunità rionali, sembra confermare la solidarietà diffusa e la piena condivisione della scelta messa in atto nei confronti di questi combattenti ad honorem. Un elemento che rende visibile in controluce la costruzione della memoria è dato proprio dalla comparazione tra le istruttorie raccolte dal Municipio e i nominativi ricordati nelle pubblicazioni celebrative delle varie brigate Sap, particolarmente attente ai propri morti. In un certo numero di casi, i nominativi delle vittime degli scontri con i nazifascisti sono solo una parte di tutti quelli riconosciuti caduti per la libertà. Questo aspetto della solidarietà assume dei risvolti interessanti nel caso di un ragazzino di soli nove anni, ucciso il 27 aprile 1945 da un cecchino fascista mentre raccoglie alcuni volantini incitanti all’insurrezione, lanciati da un’auto partigiana in corsa in via Madama Cristina. La relazione del Cln rionale e quella dei vigili urbani presentano una significativa differenza rispetto a ciò che sta facendo il bambino poco prima di essere ucciso. Non potendo, per l’età, ascriverlo alle formazioni partigiane sic et simpliciter, si ricerca una causa “politica” all’origine della morte e non più un atto di innocente ingenuità. “Mentre la macchina che trasportava 4 membri del CLN transitava in via Madama Cristina le veniva sparata addosso da una finestra una raffica di mitra che uccise il ragazzo […] che si trovava a bordo della macchina che lanciava manifestini incitanti alla liberazione”[28]. “Verso le ore 10,30 del giorno 27 aprile u.s., mentre in compagnia della sorella Mirella di anni 14, stava attraversando la via Madama Cristina davanti allo stabile N. 137, veniva colpito alla gola da un proiettile di fucile mitragliatore, sparato da elementi nazifascisti. A mezzo di un’autovettura guidata da Partigiani, il ragazzo veniva trasportato all’Ospedale San Giovanni (Molinette) ma vi giungeva cadavere”[29].
A distanza di quasi sessant’anni, la stratificazione della memoria pubblica restituitaci dalle lapidi cittadine, costituisce una chiave per tentare di comprendere pienamente le preoccupazioni e le finalità, talvolta edificanti, dei soggetti allora operanti nella vicenda. Il profilo che sembra sin qui emergere è quello di una memoria ampiamente condivisa, che pur tra le contraddizioni, è riuscita a trasmettere il senso di attaccamento ai valori della libertà maturato tragicamente da quelle generazioni.
Nicola Adduci
[1] Asct, deliberazione della Giunta Popolare, 21 maggio 1945, verbale 19, § 61
[2] Il 18 luglio 1945 la Giunta delibera di costituire una commissione giudicatrice in vista del concorso per la costruzione di un monumento ai caduti per la libertà da erigersi nel Cimitero generale. (Cfr. Asct, deliberazione della Giunta Popolare, 18 luglio 1945, verbale 24, § 1 bis). Il 31 agosto 1945 viene pubblicato il relativo bando di concorso per la costruzione del monumento nel Campo della gloria, presso il Cimitero generale. Cfr. “L’opinione”, 31 agosto 1945
[3] Asct, deliberazione della Giunta Popolare, 21 maggio 1945, verbale 19, § 62
[4] Asct, deliberazione della Giunta Popolare, 21 maggio 1945, verbale 19, § 61.
[5] Asct, deliberazione della Giunta popolare, 30 maggio 1945, verbale 20, § 98. Con tale delibera si procede all’acquisto di 50 lapidi per una spesa totale di lire 160.000.
[6] Asct, 1947 - IX 6, Gabinetto del sindaco, c. 645, f. 8, sottofasc. “Elenchi”, lettera di accompagnamento trasmissione elenco, 3 luglio 1945. In essa si fa riferimento alla richiesta datata 22 giugno, avanzata dal capo di Ga binetto al comandante dei vigili urbani.
[7] In questi appunti, in calce ad uno degli elenchi predisposto dai vigili urbani, compaiono alcune delle norme che disciplineranno la materia. ”a) Questa lista comprende i caduti già ricordati al Martinetto e che quindi devono essere depennati […]. b) In questa operazione assicurarsi che i nomi siano esatti ossia che non restino in questa nota i nomi che vengono cancellati dalla lapide del Martinetto a meno che si tratti di caduti altrove e non al Martinetto. c) Raggruppare i nomi risultanti dalla selezione suindicata per località in modo di riunirsi in una sola lapide per ognuna di esse. d) Ogni lapide dovrà portare […] i nomi e i cognomi dei caduti, la loro condizione, la data del decesso ed una breve epigrafe”. Cfr. Asct, 1947 - IX 6, Gabinetto del sindaco, c. 645, f. 8, sottofasc. “Elenchi”, minuta alla I Divisione, 7 luglio 1945. Le altre norme che si aggiungono nella regolamentazione della materia, quali la commemorazione dei soli caduti nel territorio cittadino appartenenti alla Resistenza o il divieto fatto ad altri soggetti di collocare lapidi esterne, cioé sulla pubblica via, emergono dai comunicati stampa e dai carteggi presenti nel fascicolo.
[8] Il comunicato, da rendere noto entro il 4 agosto, non risulta pubblicato dai quotidiani esaminati. Ciò nonostante alcune lettere rinvenute nel fascicolo fanno espresso riferimento alla pubblicazione della notizia, senza specificare il giorno. (Cfr. Asct, 1947 - IX 6, Gabinetto del sindaco, c. 645, f. 8, comunicato stampa, 23 luglio 1945).
[9] Asct, deliberazione della Giunta Popolare, 12 settembre 1945, verbale 29, § 50.
[10] Sembra andare in questa direzione quanto scrive la divisione Gabinetto all’ingegnere capo dei LL.PP. di lì a qualche mese: ”Si comunica che questa Divisione non è in grado di stabilire quale sarà il numero definitivo delle lapidi a ricordo dei Martiri della Libertà. Si ritiene ad ogni modo che non molte saranno le domande che verranno presentate, poiché è da presumersi che ormai le famiglie […] abbiano, per la massima parte, avuto notizia dell’iniziativa del Comune”. (Cfr. Asct, 1947 - IX 6, Gabinetto del sindaco, c. 645, f. 8, comunicazione della divisione Gabinetto alla divisione LL.PP., 7 marzo 1946).
[11] Asct, 1947 - IX 6, Gabinetto del sindaco, c. 645, f. 8, sottofasc. “Elenchi”, risposta al telegramma urgente del prefetto, 23 ottobre 1945.
[12] Cfr. “L’opinione”, n. 131, 28 settembre 1945, p. 2.
[13] Asct, 1947 - IX 6, Gabinetto del sindaco, c. 645, f. 8, promemoria dell’ingegnere capo della divisione LL.PP. alla divisione Gabinetto, 4 marzo 1946. A questa data la cifra stanziata nella delibera del 12 settembre risulta quasi raddoppiata
[14] Asct, 1947 - IX 6, Gabinetto del sindaco, c. 645, f. 8, sottofasc. “Pratiche già in sospeso - richieste varie”, informativa dell’ingegnere capo della divisione LL.PP. alla divisione Gabinetto, 17 giugno 1946.
[15] Asct, 1947 - IX 6, Gabinetto del sindaco, c. 645, f. 8, comunicazione del capo della divisione Gabinetto alla divisione LL.PP., 26 giugno 1946.
[16] Asct, 1947 - IX 6, Gabinetto del sindaco, c. 645, f. 8, richiesta al sindaco di L. S., 27 aprile 1946.
[17] È il caso, per esempio, della famiglia di Erich Giachino, componente del Comitato militare regionale fucilato al Martinetto. La materia appare però complessa e contraddittoria; ad esempio, il partigiano dei Gap Giuseppe Bravin ricordato insieme a Natale Costanzo con un cippo in corso Giulio Cesare, ottiene anche una lapide, tuttora esistente, murata a fianco al portone di quella che era la sua abitazione, in via Don Bosco 6.
[18] La prima richiesta di cui vi è traccia è quella avanzata dalla Fiat Grandi Motori. (Cfr. Asct, 1947 - IX 6, Gabinetto del sindaco, c. 645, f. 8, sottofasc. “Pratiche da evadere”, richiesta di autorizzazione per la posa di una lapide, 5 ottobre 1945).
[19] In una nota della divisione Lavori Pubblici al capo di Gabinetto del sindaco si comunica che le lapidi già apposte da amici o familiari dei caduti riguardano: Pinardi, Costa, Gambino - Jori - Mosso, Inzerilli e Caudana. (Cfr. Asct, 1947 - IX 6, c. 645, f. 8, sottofasc. “Lapidi apposte da famigliari o Enti e non sostituite”, nota al capo di Gabinetto del sindaco, 26 settembre 1945). Tale documento, però, risulta incompleto, in quanto mancano per esempio, i riferimenti alla lapide murata dal Cln di Borgo San Donato in onore dei nove fucilati di piazza Statuto e a quella dedicata al caduto Mario Roveri in borgata Lucento. È inoltre probabile che vi siano ancora altri esclusi.
[20] A tale proposta aderiscono quasi tutti. Solo la famiglia di Mario Roveri rifiuta l’offerta poiché - come viene annotato in calce alla richiesta di sostituzione inviata dal Comune - “desidera che rimanga la lapide apposta dagli amici del Caduto e dalla popolazione di Lucento”. (Cfr. Asct, 1947 - IX 6 Gabinetto del sindaco, c. 645, f. 8, sottofasc. “Lapidi apposte da famigliari, Enti …”, richiesta sostituzione lapide, 20 novembre 1945). Successivamente il Municipio appone ugualmente la propria lapide (oggi non più esistente) in via Verolengo 136, lasciando quella precedentemente collocata dalla famiglia in via Bravin angolo via Goytre lungo il muro di quello che era il cinema Lucento
[21] L’ingegnere capo della divisione LL.PP., scrivendo al capo di Gabinetto del sindaco, così riassume la situazione a due mesi dalla delibera: “al 10 novembre 1945 sono 50 le lapidi collocate, 20 pronte in cantiere ultimate, 50 in scritturazione, 12 sono in sospeso o non confermate dalla divisione Gabinetto”. (Cfr. Asct, 1947 - IX 6 Gabinetto del sindaco, c. 645, f. 8, sottofasc. “Lapidi collocate”, comunicazione al capo Gabinetto, 12 novembre 1945). Il primo gruppo di lapidi risulta murato il 18 ottobre 1945, l’ultimo gruppo il 31 ottobre 1946. (Asct, 1947 - IX 6 Gabinetto del sindaco, c. 645, f. 8, sottofasc. “Lapidi collocate”, informativa della div isione LL.PP. al capo di Gabinetto, s.d.).
[22] La prima richiesta di cui vi è traccia è quella a favore di Mimmo Pinardi, inviata al sindaco il 3 maggio 1945 da Adriano Vitelli, della Federazione giovanile del Partito d’azione. (Cfr. Asct, 1947 - IX 6, Gabinetto del sindaco, c. 645, f. 8, pratica relativa a Mimmo Pinardi). Il grosso delle domande si concentra tra l’autunno 1945 e la prima metà del 1946.
[23] La procedura viene probabilmente collaudata già nell’agosto 1945, prendendo in esame alcune richieste pervenute al sindaco durante l’estate.
[24] Talvolta, all’istanza si accompagna un breve resoconto di qualche comandante partigiano circa l’interessato.
[25] R. Bodei, “Libro della memoria e della speranza”, Bologna, Il Mulino, Bologna, 1995, pag.45.
[26] Si tratta di S. G., “rimasta uccisa dai tedeschi in via Principe Amedeo davanti allo stabile N° 48”. Cfr. Asct, 1947 - IX 6, Gabinetto del sindaco, c. 645, f. 8, sottofasc. “Lapidi non concesse o annullate”, informativa vigili urbani, sezione Vanchiglia, 17 ottobre 1945
[27] Almeno un paio di casi risultano interessanti. Il primo riguarda A. M., ferito mortalmente il 16 luglio 1944 tra corso Vittorio Emanuele e via San Massimo. Si tratta di un aviere della Repubblica sociale al quale erroneamente il Municipio dedica una lapide. La stessa viene rimossa immediatamente non appena uno dei protagonisti di quella vicenda, un agente di Ps, nota casualmente la pietra commemorativa e scrive un esposto in cui racconta che “verso le ore 13, mentre percorreva in divisa il Corso Vittorio giunto all’angolo di Via San Massimo venne fermato e provocato da un soldato dell’aviazione repubblicana il quale si faceva accompagnare da un sergente della stessa arma indirizzando la frase ‘Disgraziato perché non vai a combattere a fianco delle forze repubblicane anziché fare l’imboscato in città’. A tale insulto rispose che il suo compito era quello di mantenere l’ordine pubblico in città. Il militare lo rimbeccò pronunziando altre frasi ingiuriose menando successivamente alle mani. Lo scrivente non potendosi difendere diversamente in quantoché solo contro due, per lo più di condizioni fisiche superiori, fece atto di estrarre l’arma al solo scopo di intimorirli, ma venne da questi saltato addosso tentando di disarmarlo; però malauguratamente partì un colpo dalla pistola” che accidentalmente uccise l’aviere. (Asct, 1947 - IX 6, Affari generali gabinetto del sindaco, c. 645, f. 8, sottofasc. “Lapidi rimosse o annullate”, esposto dell’agente di Ps Francesco De Sario, 29 novembre 1945). Il secondo caso riguarda la collocazione di una lapide, subito rimossa, intitolata alla memoria di P.I., ucciso dai tedeschi il 27 aprile 1945 mentre si accinge a soccorrere un ferito in corso Vittorio Emanuele angolo corso Ferraris. Si tratta di un dipendente della Reale Mutua Assicurazioni, per il quale i familiari richiedono la concessione della lapide. Il Cln aziendale in questo caso informa il Municipio che il P.I., fascista repubblicano “circolava armato di rivoltella […] portava costantemente all’occhiello il distintivo del partito. Quando si recava a Susa, località di residenza della sua famiglia di cui il padre era podestà lasciava tutto l’apparato di tessere distintivi - pistola nella sua scrivania di ufficio ad evitare (come affermava lui stesso) seccature da parte di Partigiani”. (Cfr. Asct, 1947 - IX 6, Affari generali gabinetto del sindaco, c. 645, f. 8, informativa Cln aziendale, 4 gennaio 1946).
[28] Asct, 1947 - Gabinetto del sindaco, IX 6, c. 645, f. 8, informativa al sindaco del Cln rionale Nizza San Salvario, 11 ottobre 1945.
[29] Asct, 1947 - Gabinetto del sindaco, IX 6, c. 645, f. 8, informativa vigili urbani della Sezione Nizza, 12 novembre 1945.
5. Avvertenza *
Le biografie dei caduti riportano dati verificati sulle schede anagrafiche, sulle pratiche Lapidi e monumenti o sulla banca dati del partigianato piemontese che in qualche caso non concordano con le date o la grafia dei nomi sulle lapidi. Le discordanze più rilevanti sono state segnalate nel testo. Non sempre è stato possibile risolvere ogni dubbio: si veda ad esempio Mario Caretto, caduto l’8 aprile 1945, secondo i dati del Ministero della Difesa. Nell’elenco delle lapidi pubblicato nel numero dell’aprile 1955 sulla rivista Torino compare una targa a lui intitolata posta in corso Giulio Cesare angolo corso Novara, oggi non ritrovata. Esiste bensì una lapide in corso Giulio Cesare 6 dedicata a Mario Garetto, caduto in quel luogo il 27 aprile 1945. Le lacune della documentazione attualmente disponibile non permettono di chiarire se si tratti di un’errata indicazione nell’elenco citato o di due lapidi distinte. Allo stesso modo non è stato possibile appurare se l’elenco del 1991 sia stato elaborato sulla base delle lapidi già apposte a quella data o se vi siano compresi anche nominativi riguardanti pratiche non concluse: è il caso di Angelo Collavino la cui targa non è stata ritrovata a Reaglie, come invece riporta l’elenco citato. La collocazione della lapide non trova riscontro nella memoria dei testimoni che riferiscono nel dettaglio l’episodio dell’uccisione del partigiano, individuato in un ritrovo, catturato e immediatamente fucilato dalle Brigate nere. Le lapidi non localizzate, disperse per la ristrutturazione o la scomparsa degli edifici su cui erano collocate, sono prive di fotografia. Dai repertori editi risultano inoltre due lapidi per le quali le fonti consultate non hanno fornito indicazioni e notizie. Si tratta delle targhe intitolate a Giovanna Dragone, in via Coggiola 4/5 e quella, non più esistente, a Ezio Giacoboni, in via Carlo Alberto 43. Sul luogo della sua abitazione, in corso Casale 52, esiste una lapide dedicata a Franco Rolla. Non è stata rinvenuta documentazione sulla collocazione della targa. Franco Rolla risulta nato a Torino l’11 maggio 1925, residente in corso Casale 52, elettricista; partigiano della 43ª divisione autonoma De Vitis, caduto a Forno di Coazze il 16 maggio 1944. Sulla lapide è indicato come garibaldino. Analogo è il caso della lapide di via Tarino 11, abitazione dei partigiani Dante Breme della VI divisione Garibaldi caduto a Castino il 24 aprile 1944, e Mario Marsili della divisione Matteotti Italo Rossi, fucilato a Crescentino l’8 ottobre 1944. (Aisrp, Banca dati Partigianato piemontese).
Si segnala sul sito www.istoreto.it la banca dati Lapidi della Città di Torino ai caduti per la Liberazione (http://intranet.istoreto.it/lapidi/default.asp), risultato dell'informatizzazione delle lapidi della Città di Torino e delle biografie dei caduti raccolte nel presente volume, arricchita di ulteriori informazioni iconografiche e testuali.
Note
* Testi tratti da Adduci, Nicola [et al.] (a cura di), Che il silenzio non sia silenzio. Memoria civica dei caduti della Resistenza a Torino, Museo diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà - Istoreto, Torino 2015
Bibliografia
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Fonti Archivistiche
- Acs. Archivio centrale dello Stato
- Asct, Archivio Storico della Città di Torino
- Ast, Archivio di Stato di Torino
- Aimlt, Archivio dell’Istituto di Medicina Legale di Torino
- Aisrp, Archivio dell’Istituto piemontese per la storia della resistenza e della società contemporanea
- Acrit, Archivio Croce Rossa Italiana di Torino
- Aom, Archivio dell’Ospedale Mauriziano
- Aosg, Archivio dell’Ospedale San Giovanni
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