

l ’ho le donne siano, in questa vita, assai più fortunate
degli uomini, è cosa che non richiede l'ausilio di
prove solari. Basti, infatti, pensare, che noi secoli, non
è passato mortale per Torino il quale non abbia lasciato,
nel suo diario, almeno una nota su di loro. Sicché belle
o bmtte, simpatiche o meno, generose o riservate le
vecchie donne torinesi hanno sempre trovato i loro
osservatori e, quello che più conta, i loro ammiratori.
Non sempre così gli uomini: e il dipingere il secondo
pannello del dittico è, quindi, cosa assai più difficile e
complicata. E la difficoltà sorge precisamente dalla spro
porzione stessa del confronto determinata dal fatto che
se i viaggiatori ebbero occhi per le donne e raramente
per gli uomini, le viaggiatrici, dalle quali sarebbe stato
da attendersi logicamente l’opposto, furono cosi scarse
di numero e così femminilmente superficiali da impedire
il crearsi di un giusto contrappeso sulla bilancia dei giu
dizi. Se si potessero prendere come prototipo dei giudizi
femminili le parole di quella miss (della quale preferisco
conservare l’incognito) che nel
1842
definiva i torinesi
come uomini sani, intraprendenti e gagliardi in amore!
Ma l’impossibilità di localizzare questo giudizio sta pre
cisamente nella considerazione che le parole della bionda
miss d oltre Manica non possono essere elevate a rap
presentazione esclusiva degli uomini della vecchia Torino
perchè rispecchiano un giudizio tipicamente, ma anche
genericamente, italiano e che corrisponde a una effettiva
incondizionata ammirazione secolare (almeno in questo
punto) da parte del geniil sesso britannico.
Quali siano stati i nostri antenati dei secoli XVI e
XVII è quasi impossibile determinarlo chè le osserva
zioni, scarse, che si incontrano non escono dal cerchio
dei giudizi accademici i quali si presentano, chiaramente,
piuttosto come un riflesso delle caratteristiche storico
politiche generali che non di quelle strettamente indi
viduali. Tali l’eccellenza in guerra e nelle
lettere,
la
franchezza, la semplicità e la « civiltà »
coi forestieri,
che elogiano,
quasi
a
un secolo di distanza, il Magnino,
professoredi matematica nell’ateneopatavino,eGregorio
Leti,
curioso tipo di libertino e di letterato grafomane.
E questi giudizii, scarsamente illustrativi, sono indici
più che di una generale omogeneità di usi, di costumi
e di abitudini di una scarsa penetrazione psicologica (fa
parte degli osservatori.
Ma nel corso del
1700
gli occhi dei viaggiatori si agut-
zano e l’osservazione si fa più penetrante e, da questo
momento, non è difficile avere dell’uomo torinese gn*
dizi più stringenti, frutto di un abile lavoro di penetra
zione attraverso le difese e gli schermi che quegli pone
tra sè e la curiosità altrui. I torinesi sono «froids é
difficiles à pénétrer » si afferma nel secolo XVIII, anck
dopo un prolungato soggiorno a Torino, e in questa
freddezza apparente, spesse volte, però, difficile a scio
gliere, è la giustificazione della varia gamma di giudài
relativi alla loro indole e alla loro personalità. Il eh*
tuttavia, non giustifica l’opinione del Walsh che
priva nei torinesi, «assez spirituels », «déja quelque
de la vivacitè meridionale ». Caspita! Ma non
dimenticare che nel suo viaggio in Svizzera, in
bardia e in Piemonte il punto più meridionale
del Walsh era stato precisamente ...Torino.
Sempre a proposito dei meridionali non è senza
resse ricordare ciò che scriveva il Grosley, nel
1764
,
ritorno da Roma e da Napoli. I torinesi, egli
sono considerati dagli altri italiani i guasconi
Curioso vero? Eppure non è difficile immaginare
nuovi ... cadetti di Guascogna se guascone voleva
gurare coloro che
alle canaglie grattano la rogna
\loti /<■fond de caractere ih soni purs italiens ». Triste
,giudi/n»! Ma stia come insegnamento ammonitore per
chi scorge la pagliuzza nell’occhio del fratello. Di questa
infelice usanza italiana è particolarmente colpito il ba
rale De Pollnitz, osservatore acuto delle cose nostre.
Gli italiani, egli scrive, hanno il grande difetto
di odiarsi fra loro: i romani odiano i fiorentini, i
napoletani, i genovesi, e non esitano affermare che ci
vogliono sette ebrei per formare un genovese e sette
genovesi per formare un fiorentino. E la critica sgorga
dalla sua penna dettata da una realistica visione dei
bisogni d’Italia: «ces qens-ci tte sauraient se mettre en
itile qu'ils fonnent tote mime nation et que leur untoti
sfrati leur richesse et leur puissance. Jaloux les uns des
tuires ils ne cherchent que se détruir et se pnvent aiusi
iu soutien le plus solide de leur liberti ». Ma gli osservatori
che non riuscirono a penetrare nell’animo torinese do
vettero rifugiarsi in rappresentazioni astratte, gli uni
applicando agli individui le caratteristiche di soorietà,
di frugalità, di previdenza, di cortesia, di industriosità
che nel complesso degli Stati sabaudi erano più che
evidenti, gli altri, quasi piccati dalla impenetrabilità
piemontese, accentuando i caratteri negativi comuni alla
rappresentazione tipica dell’italiano di allora.
Questi ultimi, tuttavia, per alcuni riferimenti parti
colari assumono un carattere di maggior vivacità e ser
vono, se non altro, a maggiormente illustrare aspetti
già noti di una società malaticcia.
E, infatti, se i torinesi furono, per molti aspetti, più
nutriti di doti che non gli altri italiani (il giudizio
comparativo risulta evidente dalle affermazioni degli
scrittori) per molti altri non furono inferiori ai loro
fratelli. Le piaghe comuni a tutte le popolazioni italiane
e specialmente quelle di «cicisbeare » e di « fripcncr »
e di «tromper au jeu », non risparmiarono neppure i
vecchi torinesi. Ed è giuocoforza immaginare i nostri
avi con occhialino e parrucca bianca, calze di seta e
bastoncino,manipolare carte e donne altrui con la indiffe
renza di chi sa di compiere atti di ordinaria ammini
strazione. Giunto più tardi che non altrove, il cicisbeismo
ebbe i suoi seguaci anche a Torino. E il Baretti, in suo
capitolo ove satireggia (al solito) le donne torinesi che
e sogliono far becco ogni geloso.
Ma il Grosley non era uomo da lasciarsi
dalle parole e dai giudizi altrui. Egli guardava
ai
e osservando annotava: «
eneffetleturinois
autant «u demiers (lesguascons) qu'ils iifférent
miers par l'industrie et par l’activxU
».
Quanto poi
altri vizi guasconi il giudizio
è, forse,
piò severo
italiani in generechenon per i guasco-torinesi in
«
quani è la forfanterie, i la finesse, i
si sono sentite improvvisamente attratte dal richiamo
della scienza, ci fa conoscere non solo alcuni lati inediti
della vita torinese ma anche alcuni luoghi adatti al
«cicisbeare » e che non hanno mutato, ancora, a due
secoli di distanza, la loro destinazione iniziale.
.... le contesse c le marchese
or non badan più all’opera, nè al giuoco
nè fanno più a mariti e coma e spese.
Il ballerino, il confessore, il cuoco,
la crestaia, la sarta, il parrucchiere,
non voglion più veder molto nè poco.
di modo che
.... se il Ciel la sua mano non vi mette
i cicisbei davvero sono fritti
con queste nuove opinioni e sette.
I meschini hanno i banchi derelitti
delle chiesc alla moda, ove alla Messa
tenevan gli occhi alle belle intenti e fitti,
perocché la marchesa e Li contessa
lasciato han San Filippo e San Francesco
dacché la luna a contemplar s'è messa.
Ma la nuova moda passò presto e i poveri cicisbei
ebbero ancora qualche po’ di fortuna se alla fine del se
colo li incontrarono ancora per le vie, per le case, e per
i teatri torinesi, il Dutens, primo segretario dell’amba
sciata inglese a Torino, e il conte di Espinchal, e se
nel
1811
il viaggiatore francese Millin affermava che il
cicisbeismo « con:mence a Turni ».
Quanto, poi, all’altro difetto e cioè all’art
•<tromper au jeu », Richard l’abbé assicura che il re
di Sardegna non si tratteneva dal raccomandare agli
ambasciatori stranieri e agli ospiti di riguardo di non
lasciarsi adescare dalle bische cittadine. «Mes piémon-
tais soni plus fins que vous » andava ripetendo il mo
narca. Ma che serviva l’avvertimento se spesse volte chi
si sedeva per una partita a faraona, scopriva solo più
tardi la diversità del gioco torinese, o chi iniziava una
partita a tarocchi ignorava persino il numero delle
carte (il De Pollnitz afferma che erano novantanove!)
e unicamente notava il fatto curioso che il diavolo po
tesse prendere il papa? Non è, quindi, ragion di mera