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mitizzarsi interiore, che, partito da una consi­

derazione esterna, finì poco a poco per sosti­

tuirsi a nuove possibili ricezioni o ricerche,

perché era un mondo bellissimo e vasto, ma

poco amante delFapprofondimento e dei muta­

menti. Ma, in complesso, Tesser riuscito, in

certe cose, in certi momenti di sensitività, a

darci l’esatta misura della vibrazione, a por­

tare il movimento alla sua forma più completa,

è titolo grandissimo che a D'Annunzio non si

può negare.

Per giungere a questo, egli dovette natural­

mente, negli anni primi, prender le mosse dei

classici, e dai più classici di essi, quando,

usando per un momento l'antica distinzione

precrociana, vogliamo intendere così suprema

compostezza, grande raffinatezza, tendenza

quasi esclusiva verso l'alto, e mai la discesa

agli Inferi. Omero, e più Pindaro. lasciarono

tracce in lui: e poi quei buoni rifacitori di certi

motivi classici, che per avventura si chiamano

romantici, e sono Keats, Byron e Shelley.

Ma per quest'ultimo vai meno l'annotazione

poiché forse di più attrasse il Nostro per

le sue manie marinaresche, che non per

la poesia.

Del Pascoli non parliamo, perché, se gli fu

amico e spesse volte presero l'abbrivo da un

medesimo spunto per comporre, subito si

allontanarono per vie diverse usando mezzi

addirittura opposti che appaiono a vista.

Del Carducci vi sarebbe da dire se mai

fosse possibile un accostamento fra le diversis­

sime nature: perché se pure D'Annunzio nei

primi tempi un po' seguì la maniera del Car­

ducci, mi pare che sempre si trattasse di pura

imitazione giovanile e mai di uguale sentire:

anzi, subito apparve la diversità, anche se

D'Annunzio chiamò Carducci maestro, ed alla

morte di lui disse di continuarne l’impresa:

ma Carducci aspirava ad essere un romano

dei buoni tempi di Catone; D’Annunzio era

italico fino al midollo, o greco dell’Italia meri­

dionale, per elezione: e non grèculo, ma sano

e sodo nell’impeto dei desideri e nel connubio

che seppe operare tra Oriente ed Occidente,

per suo gusto, come prima ho detto. Perché

egli tende (ed è un interessante fenomeno cul­

turale) a diversificarsi anche nella realizza­

zione di elementi artistici che fino allora pa­

revano peculiari di un dato poeta; ma non

rifugge dall'affrontarli. forse per amore del

pericolo che lo accompagnò nella vita pratica,

e più vivo

ancora

era nell'arte, per far vedere

quante cose egli ancora sapesse

far

nascere

da un argomento già da altri sfruttato. Quindi

(e questa è pure l'opinione di uno dei più solidi

e conclusivi critci nostri, il Bellonci) se si

voglia esaminare le analogie esistenti fra lui

e gli altri, occorrerà spesso fermarci al tempo

della prima mossa, vedere le somiglianze dei

motivi, delle situazioni in cui egli volontaria­

mente si mette per risolverle esteticamente in

modo nuovo, secondo la sua ispirazione prepo­

tente e vivace, che può servirsi anche di mo­

menti culturali rivissuti esteticamente. Ma per

continuare l’osservazione dei contatti, bisogna

dire che quel fondo di carattere italico orien­

talizzante, che traspare spesso dall’opera sua,

è, per forza di cose, forse più chiaro nell’opera

di pittori, e particolarmente, non è questa una

scoperta, in quella di Francesco Paolo Michetti.

Pittore grande, pittore vivo, nel sangue e

neirimmaginazione; e la medesima ricchezza

barbara, il senso del colore, l’orrore per le

tinte morte, si ritrovano tutti in D'Annunzio,

il quale spesso ci appare più vicino alla pittura

che non alla letteratura, come mezzi; quantun­

que egli dicesse che l’orecchio era di lui la

parte migliore, e che in un orecchio aveva

un grillo e nell’altro un ragnatelo: ma l’orec­

chio era per lui quello che l’occhio, ispira­

zione a parte, è per i pittori. Ricordiamo

l’entusiasmo di Leonardo per la perfezione

dell'occhio.

Ma è bene lasciar stare ciò per tornare

all’argomento primo. L’orecchio di lui ci fa

pensare alla sua grande preoccupazione: la

musica delle parole. Una musica che spesso

nasce da una parola, ed una poi dà luogo ad

un’altra, e ne consegue una polifonia preziosa

e complicata: si crea un momento di tutta

tensione verso questo zampillare di note che

sono parole, che tintinnano, rimbalzano, ca­

dono. risalgono, si accostano, tendono al com­

plesso orchestrale. E nasce la pagina, quella

pagina tanto amata da lui, per giungere alla

perfezione della quale aveva speso tante notti,

e si era compiaciuto di motti e fregi e modi

di dire belUssimi: quella pagina che era stata

la ragione della sua vita.

Ed ecco, per un’altra via, son giunto a quello

che già prima volevo dire, e che mi nasceva

da altre considerazioni. Abbiamo una musica

ricchissima composta da un fraseggiare diffi­

cile e a volte nuovo, a volte perfino troppo

complicata, sempre però stupefacente e di di­

mensioni impressionanti: ma vi manca spesso

quella linearità primitiva che è indispensabile

perché il germe dell’ispirazione, quando essa

è vera, sia messo a nudo. Tutta questa ric­

chezza, tutta questa esuberanza che si rompe

nel fraseggiare, ha poi pure, con somma faci*

lità, un suo momento di stanchezza e di di­

spersione: come accade di certe chiese ric­

chissime (e non a caso parlo di chiese, dove lo

ieratico ed il sensuale molto facilmente si

confondono), in cui l'animo sbalordito dalla