PRIMO OTTOCENTO TORINESE
genti, recare il peso della presidenza del Consiglio
e, in giorni più fausti, governare città liberate, con
cludesse non d’altro trattarsi, in fondo, se non di
un « ambiente plumbeo ».
Il quale, poi, non tardò a rischiararsi, se già il
4 maggio 1833, a due anni dall’ascesa al trono di
Carlo Alberto, il professore Pier Alessandro Paravia,
di Zara, laureato a Padova, impiegato dapprima
presso la Delegazione dell’l. R. Governo a Venezia,
nominato insegnante d’eloquenza italiana all’Univer-
sità di Torino con patenti del 17 aprile 1832, così
scriveva a Niccolò Tommaseo: «. .. in nessun altro
luogo d’Italia si studia, si stampa, si vende quanto
in questo... I librai si dànno di continuo le mani
attorno per mantenere desto il bisogno di leggere e
di studiare che è proprio dei Piemontesi; e però
mancano piuttosto i letterati alle imprese, che le
imprese ai letterati. Il Pomba. soprattutti. è ii più
animato da questo spirito d’intraprese letterarie... ».
(Cfr. Vittorio Cian.
Vita
e
cultura torinese nel periodo
albertino).
E un anno dopo. 23 maggio 1834: « Non
vi nego che il paese (Torino) sia pieno di pregiudizi;
ma le lettere però vi sono rispettate e protette, e
chi le coltiva è riguardato come una specie di magi
stratura, e non già considerato come un cerretano o
un facchino qual si usa negli Stati austriaci ». Ancora,
il 30 novembre '36: « ... Vedrete la franchezza con
cui è scritto
(il suo discorso inaugurale all'Università),
vedrete lo spirito italiano da cui è animato e rende
rete giustizia al Re che permette quella franchezza,
al Governo che non s’adonta di quello spirito. Se lo
avessi recitato a Padova o a Pavia credo che avrei
mutato la cattedra con un ceppo ».
Parole così calorose e circostanze talmente pre
cise da non permetter di pensare a personali mani
festazioni di gratitudine del Paravia verso il Sovrano
che lo aveva chiamato aU’importante ufficio.
Guardiamola un po’ esteriormente la piccola To
rino d'allora, circa un quinto deH'attuale, con un
perimetro di 7398 metri, entro cui vivevano cento-
diecimila abitanti. Un libro del 1828, compilato dal
regio geometra Antonio Milanesi da Casale, ce la
descrive con 172 isole che formavano 84 vie e 14
piazze; coronata da sette baluardi; divisa in,quattro
sezioni: di Po, del Monviso, del Moncenisio e della
Dora; con 'quattro ingressi: Porta Susina, Palazzo,
di Po e Nuova. Sui due fiumi v’erano complessiva
mente tre ponti: uno in pietra sul Po (quello della
Gran Madre) e due di legno sulla Dora; ma un di
questi era prossimo a cadere, chè già stava sorgendo
il maestoso ponte a un solo occhio, opera dell’inge-
gnere Mosca da cui prese il nome (3). Per il culto:
37 chiese.
A pubblici passeggi s'adibivano: il gran viale della
Cittadella, orlato d'olmi secolari; il Giardino Reale,
chiuso all'inverno; il viale de’ platani, o corso del
Re, ora corso Vittorio Emanuele II; e il viale del
Valentino, detto anche — per le sue ombre acco
glienti e solitarie — il « viale dei sospiri », che
andava, con una diritta diagonale, dall’od erno angolo
di via Nizza col corso Vittorio Emanuele II fino al
castello del Valentino, tagliando prati e orti non più
immaginabili, certo, a percorrere le arterie del ricco
e animato rione di San Salvario.
Su quei passeggi ci dà interessanti particolari
Luigi Rocca nel suo
Taccuino d'un vecchio torinese.
A settantanni
(Tipografia Roux e Favaie,
1882).
Il
Giardino Reale s'apriva puntualmente a primavera e
non vi si poteva accedere se non con abito « assai
decente », con tanto di cappello a cilindro; proibito
« portar bastoni e fumare »; ed era « rigorosamente
vietato l'ingresso ai soldati semplici e ai servitori in
livrea»: disposizioni che durarono fino al
1848.
Quando furono tolte, tutti approvarono. Infatti, si
capiva poco un pubblico giardino senza soldati... e
bambinaie. Rimase però il divieto di fumare e por
tare il bastone.
Fra il
1830
e il
'40
i torinesi, nei giorni di festa,
facevano due passeggiate. Prima, la messa di mezzodì
a San Filippo, a San Lorenzo o a San Dalmazzo, le
tre chiese più frequentate; poi, per un'ora, a pas
seggio sul viale della Cittadella; nel tardo pomeriggio,
seconda passeggiata sul Viale del Re, dove sfilavano
sontuose carrozze e facevan bella pompa esperti im
pettiti cavalcatori.
Quadretti d'una Torino che par remotissima. Tor
nasse al mondo un di que' nostri bisavoli in palan
drana marrone o verdognola, calzoni a bande scure,
copricapo a staio! Come raccapezzarsi? Rimarrebbe
addirittura abbacinato, solo ricordando, per esempio,
la smorta luce delle
465
lanterne a olio che servivano
nel
1828
a diradare le tenebre notturne di Torino
e sobborghi: un numero che, in dodici anni, non
aumentò che di sedici (una
e
qualcosa all'anno!)
sicché
481
ne troviamo nel
1840,
affidate a ventotto
inservienti illuminatori, con una spesa globale di
'Ottantamila lire annue reintegrate dal Comune me
diante un dazio consumo sulla paglia e sul fieno.
Pubblicazioni sincrone rilevano come un lusso non
frequente che tale illuminazione funzionava per l'in
tera notte, con qualunque cielo, perfino —guardate
che scialo! — durante il plenilunio.
In un primo tempo i radi lampioni erano appesi
a sbarre fisse, a cui s'arrivava mediante scale a pioli
munite, all'estremità inferiore, di due ferree punte
che, ficcate nel suolo, impedivano gli slittamenti:
così, chi era sopra lavorava tranquillo. Ma quelle
benedette punte costituivano un pericolo per i pas
santi* Di giorno, le scale si custodivano sotto l’atrio
a terreno di Palazzo Madama: a sera gli accenditori
andavano a ritirarle e, frettolosi, correvano per
tt
stradar tenendole orizzontalmente sulle spalle o infi
late al braccio. Succedeva che spesso le punte pren*
devano nei fianchi i viandanti non abbastanza lesti
a
scansarsi. Si credi rimediare applicando alle lari
una carrucola con catenella per furie discendere
livello dell’accenditore. Nuova minaccia: mer.
* * *