PRIMO OTTOCENTO TORINESE
giorni e giorni gran cicaleccio tra le dame e lotta di
raccomandazioni presso le alte cariche di Corte,
anche per una modesta ragione pratica, chè la chiave,
non appena conquistata, veniva parzialmente affittata
e subaffittata con una trafila di contratti in cui s'an
dava molto al di là della terzieria.
Come si vede, erano dal più al meno le conversa
zioni, i pettegolezzi, le preoccupazioni che si potreb
bero ascoltare pur all'epoca nostra in qualunque can
tuccio di salotto o di caffè. Completamente diversa,
invece, la cornice del quadro. (Considerazione: se
l’uomo ha saputo cambiare molte cose, non è però
riuscito a cambiare se stesso). Con l’avvento del
termosifone, del gas, della luce elettrica, addio
scoppiettanti ceppi nei lustri caminetti di marmo! e
candelabri di cristallo le cui esili fiamme, se non
diffondevano troppo chiarore, cacciavano su per le
nari un’abbondante invisibile nube di fumodella quale
le dame s’accorgevano mettendo mano al fazzoletto!
Scomparse, dalle ampie tavole delle stanze d’ingresso,
le lunghe file di lampade delle più svariate fogge e
stature da sembrare un lillipuziano drappello di militi
di differenti armi.
Vedete, ora, il piglio del Brofferio nell'offrire la
descrizione d’una serale riunione domestica. Pare
un’idilliaca oleografìa. Sala in casa d’un ottimo fun
zionario. Servizio di thè o punch con frutta e confet
ture; poi, i vecchi da un lato a giocare a carte con
tranquilla gravità e al centro i giovani che potevano
onestamente svagarsi con la recitazione di versi, l'im
provvisazione di pantomime, oppure accennando can
zoni su discreti accordi di chitarra o avviando castiga
tissimi giochi così detti di società; passatempi che
allora si compendiavano nel verbo
folleggiare:
oggi
farebbero sbadigliare la gioventù assai men con
tentabile.
Su tutto, un’aria di semplicità, a palazzo e fuori,
in famiglia e a teatro, da cui non amava esimersi
il medesimo Sovrano. Confesso che a me non dispiace
quel Carlo Felice il quale, preciso al Regio a levata di
sipario, soleva poi a metà spettacolo, in un inter
vallo, senza muoversi dal suo palchetto, sgranocchiare
ogni sera per frugale cena una rispettabile quantità
di grissini (5). Varrebbe la pena d'esser re se non si
potessero fare i propri comodi! Il d'Azeglio cita la
regale abitudine come una prova di più dell’angustia
dei tempi; ma non è da escludere ch’egli scrivesse
sotto lo sgradevole ricordo d'una sera in cui, essendo
in un palchetto di fronte a quello del Sovrano insieme
con altri uomini e signore, tutti vi chiacchieravano
a voce così poco sommessa che il Re, accòrtosene,
mandò un ufficiale delle guardie per pregarli di non
disturbare lo spettacolo. Giusto. Aspettassero che
calasse il sipario del Galliari, quel sipario in passato
meritamente famoso e allora già ridotto a un telone
tutto macchie e buchi e rattoppi, con le figure —
uomini e belve del carro di Bacco — mutilate, sbia
dite. accecate! Una mezza istituzione se pur in sì
pietoso stato, continuava a distendersi dinanzi agli
ori della sala settecentesca.
Nè era l’unico inconveniente da lamentare nel
nostro massimo teatro. In migliori condizioni non si
trovavano i locali accessori. Qualche anno dopo, re
gnando Carlo Alberto, questi riconoscerà l’imprpro-
gabile necessità di provvedere a che sia tolto « il
pessimo fetore» che ammorbava i corridoi.
* * *
Quanto agli spettacoli del Regio, la loro compo
sizione, fra il 1822 e il '30, era tale da far pensare a
una sorta di programma di varietà: alla lirica s’uni
vano la mimica, la danza, l’azione coreografica, con
intrusione di elementi comici e acrobatici. Nella
stessa sera, scrive un contemporaneo, si avevano di
regola: « l'opera in musica e due balli, uno grande,
spettacoloso, ed un balletto, per lo più in vart atti:
in entrambi, più specialmente nel secondo, per non
breve tempo agivano i così detti
grotteschi,
tipi di
clowns
da circo equestre, che eseguivano salti ed
esercizi straordinari ». Rappresentazione che durava
a lungo, ma si cominciava molto più presto di adesso.
È nota la passione di Carlo Felice per il teatro,
tanto che, a’ suoi tempi, gli fu dato il soprannome di
Rex
Theatrorum.
Il suo arrivo nella sala era preannun
ziato da un comando: « Silenzio! » imposto a gran
voce da una guardia del palazzo che veniva al para
petto del palco. Di lì a pochi minuti, ecco il Sovrano,
la Regina ed il sèguito, che occupavano, di solito,
le tre prime logge della seconda fila a destra. Solo
nelle serate di gala prendevano posto nel gran palco
centrale sovrastato dallo stemma.
Seduto con le spalle alla ribalta, di fronte a Maria
Cristina, Carlo Felice prestava attenzione a ciò che
accadeva nella sala non meno che sulla scena, cate
gorico nell'esigere dagli spettatori il più rigoroso
contegno, sicché le guardie di palazzo, cui era affidato
il servizio di sorveglianza del teatro, dovevano inter
venire non di rado per trasmettere — a qualcuno
che disturbava — il reale ordine di starsene zitto.
Si trattava di quel corpo di guardie accasermato in
fondo alla via Po, formato in maggior parte di vecchi
sergenti che. per non esser propriamente marziali
nell'aspetto e nell'incedere, venivano chiamati dal
popolino
piotin.
Il male è che il nomignolo, talvolta,
veniva pronunziato in loro presenza e i sergenti,
pronti, reagivano, donde rumorosi alterchi da non
finir più.
Al Regio era severamente proibito qualunque
cenno sia di biasimo sia di approvazione.
Vietato
non solo il fischio, ma anche l'applauso. Unicamente
se il "Re batteva le mani era consentito imitarlo..
Tali disposizioni restarono in vigore per anni
e anni,
sempre, rispettatissime. Per trovare
due trasgressori
bisognerebbe giungere al
1846,
stagione nella
quale,
urta sera, due giovani avvocati, indignati da
uno
spettacolo artisticamente intollerabile,
perdettero la
pazienza e fischiarono di
santa ragione. « Furono
condotti ». narra L.
Rocca nel menzionato
Toccutao.
«a l Comando Militare in
Palazzo Madama e quivi
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