

PRIMO OTTOCENTO TORINESE
quegli era intento alla manovella, sembra che il lam
pione, più d'una volta, sia finito sulla testa di chi,
in queH’istante, vi passava sotto senz'avvedersene.
Insomma, gli imprevisti non mancavano.
Sorse nel 1838 uno stabilimento per la produzione
di gas illuminante, impiantato da una Società Ano
nima di Lionesi e Piemontesi sull’angolo della piazza
d’Armi, appena fuori di porta Nuova (e la prima
parallela di via Sacchi, fino a pochi anni fa. si chiamò
appunto via Gazometro); maesso, per qualche tempo,
non servi che le abitazioni private e i teatri. Solo
nel '40 la Società avanzò la proposta d'incaricarsi della
pubblica illuminazione, verso il pagamento orario di
cinque centesimi per ciascuna lanterna, compreso
l'impianto e la manutenzione.
Per la misura dell'attività finanziaria, commerciale
e professionale basterà dare un'occhiata alla statistica
contenuta nella Guida composta dal Bertolotti in
occasione d'un Congresso di scienziati. É del 1840,
ma le cifre, salvo leggere oscillazioni, non variano da
quelle di alcuni anni addietro. Si registravano 2500
proprietari di beni immobili, 160 banchieri e 2240
negozianti, di cui 1800 al minuto. Non molti i cultori
delle libere professioni: 180 i medici e chirurghi;
125 gli avvocati; meno ancora i notai e procuratori:
120. Si aggiungano 1670ecclesiastici secolari e 805 re
ligiosi regolari, tra uomini e donne. V'erano infine
2100 persone che, beate loro, vivevano di rendita o
di pensione e formavano quel cetc in passato cosi
caratteristico a Torino, da farle meritare la fama,
fortunatamente scomparsa, di « città dei pensionati ».
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Ma entriamo nei palazzi a sorprendervi la vita di
società, il tema delle conversazioni, l'ossequio al ceri
moniale; non senza un cenno, prima, su quell’aristo
crazia torinese che, nel secondo ventennio dell'otto
cento, fu giudicata in vario modo. Il Brofferio la
riteneva benemerita per la cordiale e incoraggiantc-
accoglienza « ai cultori delle lettere e delle arti,
desiderati e distinti » nei salotti. « I nobili, che
avevano la ricchezza e la potenza», egli scrisse,
« sentivano il bisogno di associarsi l'intelligenza ».
Il d'Azeglio la trovava invece decisamente « fasti
diosa
». E
si che, in pari tempo, le riconosceva lo
spirito alacre, l'energia e la fedeltà. Alla grazia! Tre
doti, attinte fra i pericoli delle guerre dei secolo
innanzi, le quali bastavano a dar sostanza a un calo
roso panegirico. Tuttavia, quel senso di fastidio pro
vocato certo da qualche caso isolato era in lui vivis
simo e si mutò addirittura in « odio profondo ». per
sua medesima confessione, tanto da farlo vergognare
d'esser nobile egli pure e da indurlo a nascondere
talvolta il paterno casato, come preferì in occasione
d'un viaggio a Possano, dove si presentò per il figlio
d'un proprio fattore, aneddoto che tutti possono
leggere nei suoi
Ricordi.
Ma c’è da chiedersi se vera
mente entrasse neH'innocente capriccio l'avversione
*11'aristocrazia o non piuttosto la tendenza sbarazzina
alle celie, per cui faceva dir di sè la gioventù d'allora,
specie se vestiva una brillante uniforme militare.
O ci sarebbe da credere in una contraddizione in
termini! Odiosa una nobiltà ch'egli ammetteva assai
superiore a quella delle altre regioni d'Italia? Si, gli
aristocratici piemontesi, sotto il regno di Girlo Al
berto, a Corte furon chiamati « barboni », e un
eccessivo amore per le centenarie consuetudini po
teva anche giustificare il soprannome: ma da questo
all’essere, in blocco, odiosi ci corre. Del resto, a
dare un esempio di commovente altezza morale da
parte di codesta aristocrazia basterà, senz'andar lon
tano, additare il celebre testamento dello stesso
padre di Massimo: il marchese Cesare d'Azeglio, che
10 redasse alla vigilia di partir per la guerra contro i
francasi (1796), cui partecipò col grado di tenente
colonnello. È un documento di sereno coraggio e di
perfetta dedizione a superiori ideali. Chi non lo
ricorda? « Nel caso che la miamorte avvenisse mentre
sono con l'armi alla mano, prego mia moglie a non
vestire il solito lutto, ma a mettersi in abito di
gala... ».
Il figlio, probabilmente, parlava per fatto perso
nale. Egli intendeva darsi alla pittura, e ci si diè, in
fatti. con risultati sempre dignitosi, spesso elevati.
Ora, nel suo ceto, ciò non era ben visto, sem
brando una irriverente trasgressione al costume tra
dizionale (4). Questo, se non giustifica, f i compren
dere la buona dose di risentimento da lui messa nel
vivace giudizio, puramente
soc
Assoluta cronaca, invece, che dove capitava la
Brigata Guardie (di cui Massimo era sottotenente)
fosse, nei pubblici esercizi, un fuggi fuggi d'avventori,
timorosi delle burle nelle quali i giovani ufficiali non
avevano chi tenesse lor testa. Storico che una notte,
.il veglione del Carignano, gli ufficiali — nientemeno!
— progettassero di mandar fuori i non molti borghesi
intervenuti, anticipando in tal maniera la fine del
ballo, progetto che, malgrado le irritate proteste,
fu 1 per lì attuato, con quanto clamore e scandalo
ognuno può immaginare.
Nel riprodurre il quadro d'una serata in famiglia
i due autori citati non differiscono meno. Il d'Azeglio
satireggia volentieri la rugosa marchesa acciaccata,
che riceve stando a letto. Intorno, la figlia contessa,
1 cugino generale, il nipote capitano, l'abate elemo
siniere del Re. Discorsi: l'amica ammalata, il triduo
a San Filippo, e... ahi, ahi, il marchesino d'Azeglio
in procinto di smetter la divisa per andar a Roma a
dedicarsi ai pennelli. Un interlocutore tira in ballo
Vittorio Alfieri per rammentare che « non ha mai
ricavato un soldo dalle sue tragedie ». ma « ne ha
bene spesi motti a ferie stampare ». Hche, spifferato
oggi a proposito d'un qualsiasi autore, costituirebbe
la più crudele delle malignità; ma allora, agii occhi
dei nobili, il lavorare soto per ia gloria era un titolo
di merito, quasi un dome. Altro importantissimo
argomento: in autunno, la distribuzione dette chiavi
per I palchi del Reeio —oui animiamo dai Brofferio
— alia quale sovraintendeva il Re in persona. Ber