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P O E S I E I N A F R I C A

di ADRIANO GRANDE

Un libretto di versi e di prose in una cdizioncina

torinese del Baretti dal titolo un poco svagato «Av­

venture» rese avvertito l'ambiente letterario, una

decina di anni or sono, che un temperamento vivo ed

*■> Iroso quanto mai. riportato >u di un gusto scal­

trito e vibrantissimo era apparso all'orizzonte:

tant'è vero che ijueH'attento saggiatore ed acuto in­

terprete della nostra letteratura che è il Debene-

detti in un articolo sulla « Tomba verde», volume

uscito verso il '30 da Buratti, chiarì come il Grande

«stringesse in uu gusto unico e deliberato, in un

certo canone delle rose che fanno la /toesin d'ofifii

pii elementi che altri avevano singolarmente dispu­

tato all'amorfo di una sensibilità ancora in fieri:

come presupponesse, in un certo senso, l'esistenza

di una poetica costituita sulla base della miglior

poesia d'oggi : e praticamente la classicizzasse e so­

lidificasse ».

Allargando poi il discorso e parlando di questa

« poesia nuova » il Debenedetti insisteva come essa

sostituisse « al pieno dei sentimenti già cristalliz­

zati, categorici inventariati come fari sempre ritor­

nanti dalle imperiture vicende del cuore, le per­

plessità ed i trasalimenti e le vibrazioni della ma­

trice oscura, cava e torturata, non localizzabile, nè

fisicamente nè spiritualmente donde quei sentimenti

traggono origine ».

E a proposito di questi « poeti nuovi » ribadiva

come « la zona di vita che costoro evocano ha una

voce incapace di liquidi e scapricciati vocalizzi. I

movimenti amebici, i serpeggiamenti di quel

plesso vitale adombrano ad ogni attimo nella loro

pregnante titubanza ritmica, una diffusa ed atmo­

sferica tensione verso il canto, che non sarà mai

e.audita in una canzone. Luce musica timbro delle

sillabe nascono dallo sprigionarsi incompleto — ar­

cana e lontana promessa di felicità — di una forza

potenziale, che par sempre voglia prorompere dal

punto di contatto della sillaba con l'infìnite traiet­

torie ritmiche che si incrociano e si smistano su

di lei ».

Discorso di otto anni fa, caratterizzante con quella

pregnanza propria del Debenedetti, il clima di gu-

sto ed i tentativi artistici presso i nostri migliori.

Alla a Tomba verde » seguirono i volumi a Nuvole

sul greto ». poi « Alla pioggia e al sole » ed infine

queste recentissime « Poesie in Africa » — Vallecchi

editore — uscite pochi giorni or sono.

Innanzi a questo «corpus» di opere poetiche, il

critico il quale voglia addentrarsi nella storia poe­

tica del Grande e ricostruirne la vera fisionomia spi*

rituale, propenderà egli a riconoscere l'autenticità

stilistica del nostro in quel « classicizza c solidifica »

che era stato sin dall'inizio l'asserto probatorio del

lontano recensore? Si cercherà allora di porre per

breve momento — mi sia concesso cotesto piccolo

eretico accenno comparativo — la metrica del no­

stro a riscontro con quella sì conchiusa e compatta

come struttura integrale, ma franta e rotta e spez­

zata di Eugenio Montale la quale così compiuta-

mente si adegua a quel mondo di « poesia nuova »

che il Debenedetti in notazioni di una semeiotica

psicologica quanto mai perentoria caratterizzava, ed

allora si chiarificherà forse che quel classicizzare

potrebbe nascondere il pericolo di una « viva occa­

sione poetica convertita in astratta situazione mu­

sicale » oppure si dovrà veramente parlare di clas­

sicità in senso stretto e mai di classicismo?

Parlare di un dramma metrico del nostro, io credo

non sia fuori di luogo. È il solo con il Montale che

non senta retoricamente i metri chiusi, — baste­

rebbe accennare allo stupendo «Coro sul Lete» --

e d'altra parte si può affermare come egli con im­

provvisi ritorni abbia sveltito ed allargato i suoi

metri al tempo stesso che diversificandos.

uti-

mento da una strettura soggettiva egli giungeva alla

oggettività epicizzante, per esempio dell'inspirato

« Saluto all'Etiopia ».

Che auzi e non è paradosso, già sin dall'inizio al­

l'occhio esperto del critico, quelli che ad uno schema

estrinseco potevano parere metri liberi, erano in­

vece costruiti con un senso spiccato di chiusura,

cosi martellati sillabati scanditi da degradare un

sonetto. Le rime erano celate da spesse assonanze

che si corrispondevano con una obbligatorietà lirica

che si poteva riscontrare solo in alcune cose di

«Ossi di seppia»; con quel senso di secchezza in­

castrata di cui, a proposito di Montale, tanto s'era

compiaciuto il Gargiulo.

Una storia poetica e stilistica per cui « quella dif­

fusa ed atmosferica tensione verso il canto» si va

proprio esaudendo in una direzione di plastica can-

zone libera che s'inserisce nell'ampio respiro tra­

dizionale di Leopardi, naturalmente con quella to­

nalità autentica, derivante da un mondo autentico,

stilizzato in una forma altrettanto vera.

È un tono nuovo che s'alza attraverso la vecchia

lingua poetica per rinverdirla con una sensibilità che

le toglie l'orpellante lustro per lasciarle l'antica so­

stanza :

• D'aria abriachi e d'arqaa

rame gabbiani, i miri pentirci •battono.

Coti la randa, quando il timoniere

«oonerrhia. E la mia gioia crexe

col vento,

col ganiarr del mare che t'inbm ci.

Ma il padnae, dm a—ma la U n n o ,

tenaraoln la vela: • M ia rotta

V