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« Maisons de plaisance »

e nobiltà

di

corte

Costanza

ROGGERO

Il territorio collinare torinese, disegno di una

secolare antropizzazione, è il risultato di stratifica-

zioni storiche complesse legate a variazioni d'uso,

di funzioni, di regime di proprietà, di colture e con-

duzione agraria. Le « vigne » e con tale accezione

le fonti storiche indicano ogni residenza temporanea

situata sulla « montagna»

di

Torino appartennero

in passato ad un sistema territoriale differenziato

strutturalmente e morfologicamente da quello della

città; l'assetto orografico, le vaste aree boscate e a

coltivo, la presenza di insediamenti rurali, la diffi-

coltà dei percorsi e dei collegamenti caratterizzarono

in modo autonomo il paesaggio collinare oltre il Po.

Qualità e funzioni rappresentarono invece il legame

reale con la vita urbana: il fenomeno delle « vigne » e

della loro trasformazione trova infatti un preciso ri-

scontro con le periodizzazioni, le committenze e i

modi di costruire la città.

La radicale modifica del tessuto insediativo col-

linare, fino alla metà del Cinquecento costituita in

prevalenza da edifici rurali per la conduzione di fon-

di agricoli coltivati per lo più a vite (anche in conse-

guenza al divieto di importazione dei vini da territori

esterni a quello comunale) (

1

), è da porre in relazio-

ne al ruolo di capitale «al di qua dei monti » del

ducato sabaudo, assunto da Torino con il trattato di

Cateau-Cambrésis (1559).

Torino, polo territoriale con grado di centralità

politico-militare e quindi economico-amministrativa

degli Stati, divenne anche « istituzionalmente » la

sede della corte. Va infatti ricordata, al di là del

dibattito in termini sociologici (

2

), l'importanza

« rappresentativa » e « centrale » della corte per la

maggior parte dei paesi dell'Europa centrale nei

secoli XVII e XVIII; la corte intesa come «fenome-

no sociale », e quindi la sua « struttura » da valutarsi

complessivamente in quanto «totalità», sono state

infatti interpretate in sede storica come fenomeno

corrispondente alla fase degli stati regionali e del-

l'assolutismo.

L'identificazione e l'accentramento nella perso-

na del duca di ogni potere, a tutti i livelli, colta

nell'interrelazione tra l'immagine programmatica

dello Stato e le effettive condizioni economiche e

produttive, oltre che sociali, fu ragione determinante

infatti, in un regime di assolutismo istituzionale, per

la formazione ed il consolidamento del « carattere

patrimoniale » di uno Stato basato sulla corte, cioè di

uno Stato il cui organo centrale era costituito dalla

«casa del re» in senso lato, ossia dalla corte (

3

).

La decisione univoca da parte di Emanuele Fili-

berto di costituire Torino come capitale dello Stato

significò l'avvio di un progressivo, e forzoso, pro-

cesso di aggregazione dell'aristocrazia piemontese e

savoiarda nel luogo deputato alla rappresentazione

emblematica del potere.

La volontà di far convergere in città quei nobili

che avevano fino ad allora abitato nei castelli dislo-

cati sul territorio rappresentò ideologicamente il ten-

tativo di indebolire la loro consolidata autonomia,

ancora impostata su rapporti di tipo feudale. Il ri-

chiamo a corte di fatto — fu adottato come stru-

mento istituzionale di controllo (

4

), fondato sul rico-

noscimento dell'aristocrazia come unità sociale, ed

impose al contempo la necessità di una sua struttura-

zione tangibile. Nella complessa dinamica e nell'a-

nalisi dei rapporti, da individuarsi e misurarsi in

dimensioni riconducibili alla tradizionale «terna» di

ricchezza-potere-prestigio, nel confronto con la real-

tà economico-produttiva e con l'organizzazione so-

ciale, vanno ricercate le matrici di una politica che,

in modo peculiare nella gestione del territorio, fu in

grado di esprimere la predeterminata inflessibilità

dell'assolutismo.

La costruzione dei palazzi nel primo ingrandi-

mento a sud della «città quadrata», i privilegi ac-

cordati a quanti erano chiamati a costruire nella zona

del vallo (dal 1638-42), gli editti relativi al secondo

ampliamento ed alla formazione della piazza Carlina

(dal 1678), furono i segni (

5

) che per tutto il Seicen-

to espressero l'intento di rendere concreti e quin-

di di esprimere per opere quei rapporti che nella

loro gradualità gerarchica erano in grado di garantire

il progressivo formarsi di una società di corte. I nobi-

li infatti erano chiamati a costruirsi il palazzo in

città, in cui era ribadito, anche nel riscontro tipolo-

gico, il ruolo egemone, il tessuto di relazioni su cui

si reggeva il loro « status » e la distanza sociale con

gli strati subalterni.

Con un processo analogo, perché riferito alla

stessa committenza, ma in certo modo diverso da

quello della città in quanto non sostenuto da editti

precisi, fu strutturato funzionalmente anche il terri-

torio limitrofo alla capitale.

Alla fase di consolidamento istituzionale e mili-

tare di Torino corrispose infatti la acquisizione da

parte del duca, quasi in forma di demanio personale,

delle aree del Valentino (1564) e del Regio Parco

(1565), in prima istanza per necessità immediata di

controllo e di difesa sul territorio e, quindi, per la

costituzione di residenze extraurbane destinate alla

caccia ed al « loisir» .

Il programma urbanistico per la città superò di

fatto il limite imposto dalle fortificazioni: la corona

delle ville di «delizia» in pianura, e si ricorda anco-

ra Mirafiori costruita da Carlo Emanuele

I,

divenne-

ro poli emergenti nella riorganizzazione fisica e fun-

zionale del territorio.

La costruzione sulla «montagna» di Torino della

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