DUE PALADINI DEL CICLO PIEMONTESE
:
GIUSEPPE BARETTI
-
VITTORIO ALFIERI
Tali si affacciano a noi, in Italia, gli spiriti migliori
di quel momento della preparazione, le cui linee di
ascesa vediamo ora, di lontano, che non erano avver
tite da coloro che ci vivevano in mezzo; tali ci appa
iono i due piemontesi più illustri di quegli anni, il
Baretti che piglia a colpi di randello e di spada la
letteratura italiana per creare un gusto e un costume
letterario italiano, e l’Alfìeri che si disvassalla dal re
nuovo della sua piccola patria per preparare ai
discendenti di esso dei sudditi pronti a cementare
col sacrificio della loro vita una patria più grande.
A leggere l’opera del Baretti sembra, in qualche
momento, ch'egli sia particolarmente fornito di quel
buon senso eh'è una
forma mentis
dei piemontesi, ma
ti accorgi subito che si tratta di un buon senso privo
di quella tolleranza accomodante, che è la più lodata
espressione del buon senso, anzi aggressivo, anzi
imperativo, che, nell'atto stessodi trovare la propria
direttiva, la elegge come una norma per gli altri.
No, non si tratta di buon senso, dote di tempi
maturi. La sua è una critica senza autocritica, con
tutti i pregi e qualcuno dei difetti dell'estremo sog
gettivismo, una critica da tempo di guerra, quando
c'è davanti un nemicoda sgominare, e manca il tempo
di scegliere le armi e aggiustare il tiro. Il vigore,
anzi il reagente, del suo gusto letterario, egli lo
trova nella polemica, e i suoi giudizi si seguono come
la sparatoria di una mitragliatrice sventagliata su di
un orizzonte non completamente individuato. A cer
care coerenza nella sua opera c'è da provare qualche
delusione. C'era da buttar giù la roccaforte di carta
pesta rappresentata dall'Arcadia, ed egli puntual
mente la sbaragliò e la distrusse dalle fondamenta,
ma, sentendosi l'obbligo di salvare il Metastasio, lo
collocò sopra una torre d'avorio alta fino alle stelle;
c'era da sommuovere una fungaia di presuntuosi
pseudo-novatori, di esterofili enciclopedici, di ver
saioli e prosatori fiacchi, pei quali le lettere erano
il rifugio della scemenza e della pigrizia, ed egli ci
dette dentro con le cannonate, contro la poltroneria
del verso sciotto celebrò e idoleggiò la rima, contro
la faciloneria della prosa esaltò ladisciplina e lo studio
del vocabolario, ma ebbe il torto di includere nella
suadistruzióne ungrandeartista comeCarlo Goldoni;
c'era nella pappagallesca infatuazione dei passato un
puzzo da museo anatomico, la stupida civetteria dei
collezionisti di oggetti d'antiquaria scambiata per
erudizione, una generale lentezza da podagrosi esta
tici a mirarsi l'ombilico; ed egli menò santamente la
frusta per levarli di 1 e ferii procedere, per liberarli
dalla schiavitù delle frasi fette e incitarli verso le idee,
ma nella furia dei colpi, pur avendo l'accortezza di
pigliarsela più col petrarchista Bembo che non col
Petrarca, non risparmiò Dante, di cui tarderà negli
uiuini inni i nspciiarc
,
scns cornprcfKKrii per
fc veneranda maestà e la subirne poesia. ■-
Ebbene, che importa tutto ciò? Egli è un paladino
che mena di gran fendenti sulla letteratura divenuta
materia
de communi,
quindi banale, quindi vuota,
quindi immorale individualmente e socialmente; e il
raggio che brilla dal suo spadone segna il cammino a
quelli che dopo verranno, pei quali lo scrivere sarà
un onesto bisogno di anime assetate di bene, un
efficace lavoro di cuori innamorati di verità, una
missione di italiani consapevoli.
*Che fosse tempo da battaglia, ecco; Pietro Verri
aveva trattato il Parini di animale e di canaglia, e il
Baretti chiamò il Verri bestia piena di albagia e di
ignoranza. Guai a pigliarli alla lettera l'uno e l'altro!
Quando, trent'anni dopo, Pietro Verri ebbe poi
nella municipalità milanese avvicinato il Parini, non
soltanto si pentì dell'antico giudizio, maesaltò l'abate
popolano come un vero cittadino probo ed onesto,
e dichiarò che dieci uomini come lui sarebbero bastati
asalvar Milanodagli errori e dalle cupidigiedei repub
blicani cisalpini. Terminato il tempo delle tenzoni,
cominciava la resa dei conti, ragionata e obiettiva;
ma il Baretti era già morto.
Il Baretti nasce a Torino nel 1719, da famiglia
oriunda di Rivalta Bormida. Suo padre, economo nella
R. Università, sposò in seconde nozze una ragazza
di vent'anni quando Giuseppe aveva di già varcato i
16 anni, e il giovinotto abbandonò la casa paterna e
la capricciosa matrigna per cercare a Guastalla, presso
unozio. unaoccupazionedecorosachegli permettesse
di vivere indipendente. Due anni dopo se ne andò a
Venezia, dove fu ammesso nella cara e decorosa com
pagnia di Gaspare Gozzi col quale visse in cortese
dimestichezza e presso cui conobbe ed apprezzò la
moglie del Gozzi, la famosa poetessa, che in Arcadia,
col nome di Irminda Partenide, snocciolava versi, e
all'ombra del focolare domestico arricchiva il marito
di ben dieci figli; quindi parti per Milano dove si
fece conoscere da Gian Maria Bicetti, Giancarlo Pas-
seroni, Domenico Balestrieri, e da quel Giuseppe
Maria Imboniti che allora aveva fondato l'Accademia
oei I ristornisi!, n i fermo non potevi stare,
l
eri
in lui quel lievitante ardore di mutare, che fu una
caratAnstica del secolo e in cui il suo umore di cava*
liere andante trovava la più perentoriagiustificazione.
Dopo yna breve parentesi torinese e un paio d’anni
passati in un ufficio ingrato a Cuneo, toma a Venezia
dóve l'attendevano vecchi e nuovi amici e le allegre
sedute dell'Accademia dei Grane!teschi, davanti alla
quale pnwm w i la traduzione delie tragedie del
Comode, occasione per una prima scrittura poi^
mica contro un certo dott. Biagio Schiavo da Esca,
con frizzi
tk i* Sj