DUE PALADINI DEL CICLO PIEMONTESE: GIUSEPPE BARETTI - VITTORIO ALFIERI
specialmente dopo la rivoluzione spogliatrice e per-
secutrice, tanto da aborrire non soltanto che lo chia
massero «cittadino», ma persin da evitare che glielo
scrivessero nell'indirizzo delle lettere. Antipiemon
tese...
E questa fu ingenuissima illusione.
«Chi non sa anche odiare non ama »: l'ha scritto
lui nella Prosa prima del
Misogallo.
Però non si tratta
nemmeno di odio, sì di fastidio a chiedere i permessi
di recarsi all estero, permessi che gli venivano lar
gamenteconcessi, ed’irritazione per essere comunque
proibito ai sudditi piemontesi di far stampare senza
licenza fuor del Piemonte, « sotto pena - così le
Leggi e Costituzioni di S. M. del 1770 - di scudi 60
ed altra maggiore, ed eziandio corporale, se così
esigessequalchecircostanzaper unpubblicoesempio».
Il Denina, infatti, che aveva dato a stampare a Firenze
un libro già disapprovato dalla censura torinese, per
dette la cattedra e scontò sei mesi di relegazione nel
Seminario di Vercelli. Fastidio e irritazione nell'Al
fieri diventano ruggito e delirio, spingendo egli tutto
ai significati estremi, e, consequenziale com'è, giun
gendo al punto di spogliarsi dei suoi beni e ridursi ad
un vitalizio; ma della pelle uno non si spoglia, il
carattere non lo butta, l'educazione prima non l’ab
bandona all'angolo della strada. Più si ribella al pie-
montesismo e più si afferma piemontese, e, per
quanto a parole voglia rinnegare questa eredità del
sangue dell'aria del tono, egli finisce sempre per
testimoniarne l'indomata perentorietà.
I « non studi » all'Accademia di Torino non erano
stati così beceri, se a otto anni traduceva le vite di
Cornelio e a nove ripeteva a memoria quattrocento
versi delle Georgiche, e se da quella lontana prepa
razione seppe poi, in età matura, in tre mesi solle
varsi a capire tutto Orazio.
A Torino, città, a sentir lui, dove il parlare ita
liano era un vero contrabbando, ha però incontrato
chi l'educò allo scrivere e al parlare italianamente.
Anzitutto, lo zio Alfieri, insigne architetto, così in
vaso di entusiasmo verso Michelangelo, da non nomi
narlo mai senza fare un cenno di riverente saluto;
così italianoda non parlare se non toscano, obbligando
quelli che volevano approfittare della sua opera a
parlare la stessa-lingua. Poi, alcuni insegnanti e amici
ai quali ammette di dover qualcosa della sua forma
zione mentale: l'abate Alliaud di Cesana; padre Pa-
ciaudi che gli correggeva arguto e benigno i versi;
una dozzina di antichi compagni d'Accademia, dove
non era dunque vero ch'egli fosse cresciuto « asino
fra asini e sotto asini ». che si radunavano presso di
lui. nel suo alloggio di piazza San Carlo, per ragio
nare, leggere e commentare, e tra essi il diletto conte
Agostino Tana; gli stessi diplomatici Sardi incontrati
nei suoi viaggi, come il Balbis di Rivera a Napoli,
che gli declamava i veni dell'Eneide.. e il principe di
Masserano a Londra, che umanisticamente consigliò
La parole hanno un loro significato, ma ricevono
il valore essenziale dalla passione che le suggerisce,
e dal tono con cui sono pronunciate.
Prima di incominciare a scrivere le tragedie di li
bertà, l'Alfieri si fi la bocca con i due trattati
DtHe
tirannide
e
Del Principe
e
deile
lettere, che
sono un»
e difese il troppo corrivo amico in occasione del
laccio amoroso con la Penelope Pitt-Ligonier. E ri
cordiamo per ultimo quello che fu primo nel tempo
e nell'importanza, quell’abate Tommaso di Caluso.
che, incontrato la prima volta a Lisbona, gli comunicò
con la declamazione di una poesia un impeto vera
mente febeo e con la geniale conversazione gli tras
fuse l'amore e l'abitudine della lettura e della rifles
sione.
Nè lo stesso dialetto dovette trovare ostico o
antipatico, se ad esso affidò, in un famoso sonetto,
l'autodifesa più spiegata dello stile ferreo e della
forma oscura delle sue tragedie.