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TOItlIO NELL'ANTICHITÀ CLASSICI

Prima di trattar»* «lolla Torino della Storia, parlerei

— se la tesi non par troppo azzardata — della Fo­

rino del Mito, facendo cosi precedere, alla digres­

sione ripidamente scientifica, una rapida rassegna

delle favole che. pur nella loro nebulosità di uni­

versali fantastici, possono servire da non del tutto

inutile preludio ai dati controllati.

Torino, o. meglio, più largamente la regione pede­

montana.

è .

adunque, dotata, in quella che Gian

battista Vico chiama l'epoca divina, di due miti,

strettamente tra loro collegati,

bellissimi

entrambi

e, in {«articolar modo il primo, pezzi forti de* re­

pertori dei mitogralì e dei poeti, specialmente ales­

sandrini o alessandrineggianti, dcU'Autichità.

A questi soltanto mi riferirò, trascurando più invo­

luti accenni a div inità autoctone come, ad esempio,

quel Giove Pennino, probabile ipostasi d'un arcaico

iddio locale, di cui già si disse iu un non lontani»

congresso storico subalpino.

La prima delle sullodate leggende è quella di Fe­

tonte. Troppo nota perchè io stia <|ui a ripeterne

il complesso intreccio. Rimando chi l'ignorasse alla

fine del libro primo e all'inizio del secondo delle

Metamorfosi ovidiane.

IVe rievocherò unicamente l'ultima parte.

Fetonte, lo sventurato figlio del Side, dopo di aver,

nella «ua pazza corsa

sul

carro paterno, incendiata

e devastata la terra intera, è colpito dal fulmine di

Zeus che, non avendo più acque da riversar sul­

l'orbe per l'enorme calura, oppone il fuoco al fuoco.

Il giovinetto, con lo spezzato cocchio piroforo, pre­

cipita neH'Eridano.

Il vecchio fiume « lo accolse — riporto le parole di

Ovidio — lontano dalla sua patria, in altra parte

del mondo, e gli asterse il volto fumigante».

Le pietose Naiadi locali danno sepoltura alle misere

ossa incenerite e inscrivono sul tumulo:

«Qui giace Fetonte, auriga del cocchio paterno; se

non seppe guidarlo, pur giacque neH'alta sua im­

presa ».

Le sorelle del fanciullo, le Kliadi — Fetusa. Lam-

petu-a. Lampezie — inconsolate, dopo quattro mesi

di incessanti compianti, vengono, dalla pietà degli

Dei. trasmutate in pioppi.

Stanno vigili, tragiche e spettrali lungo la fiumana

le arboree sorelle e le lor lacrime, pur dal nuovo

corticc stillando, sono opalee goccie d'ambra che i

gorghi trascinano.

La seconda favola, •trettamente collegata alla prima,

è quella che narra come Cimo o Cigno, amico ed

amatore del caduto, avendo assistito al prodigio ed

essendo anch'egli oltremodo straziato, è mutato nel­

l'uccello omonimi».

La «uà stirpe, memore del dolore del capostipite, po­

pola il Pado e ne fa risonare le rive coi suoi dolcis­

simi lamenti.

Esaminiamo ora criticamente i suddetti miti.

Malgrado l'avversa testimonianza di Luciano, spie­

tato e cinico stroncatore di credenze popolari (dia­

loghi. LY ), opino che le due imaginose tradizioni

siano originarie della plaga padana.

E pur vero che l'arguto samosatese non trovò, nel

secolo secondo, alcuna traccia, tra i battellieri del

fiume, ili tali racconti, ma non è meno evidente che

le popolazioni che, tra il cento e duecento dopo ('ri­

sto.

soggiornavano iu quei luoghi, ben poco dove­

vano avere, dal lato razziale, per gli innumeri in­

croci e spostamenti e per la forte colonizzazione

romana, delle primitive genti celto-liguri; e se poco,

o meglio pochissimo, da e«se ritraevano somatica­

mente. a maggior ragione nulla doveva residuare

delle favolose credenze degli autoctoni.

Le leggende, quasi certamente rampollate tra il Po

e le Alpi, e poi passate, per chi sa quali misteriose

v ie. a quel formidabile collettore di miti d'ogni ori­

gine ch'era l'imaginifica Grecia, vennero novella-

mente alla scaturigine, col poligrafo ellenico, in

guisa — come si suol dire — d’un cavallo di ritorno.

Il fatto poi che Luciano di Samosata non trovi, ai

suoi tempi, tra i greti dell'imponente corso d'acqua

che scarsissimi esemplari (e. naturalmente, tutt'al-

tro che canori) del candido volatile, non prova in

alcun modo che. alcuni secoli addietro, tal genere

di fauna vi fosse assai abbondevole.

Il lussiirreggiante scenario arboreo, inoltre, in cui

intravediamo l'inquadratura dello squarcio del Poeta

sulmonese, è verosimilmente tipico del primitivo

paesaggio pedemontano.

Cicno — dice Ovidio stesso — « abbandonato il go­

verno del regno (giacché aveva retto i popoli liguri

e grandi città) aveva empito de' suoi lamenti le ripe

verdi e il fiume Eridano... ».

E ancora il cantore delle trasformazioni dichiara es­

ser stato egli figlio di Stenelo (altro probabile mo­

narca di quelle terre).

L'affermazione, sia pur di seconda mano, che qui

notiamo circa le genti sulle quali il mitico perso­

naggio avrebbe regnato e l'accenno a vasti abitati

deporrebbero, a mio modo di vedere, in favore di

una possibile identificazione dell'eroe con qualche

regulo della preistoria o della storia più nebulosa

dell'antico Piemonte.

!Non potrebbero essere, \erbigrazia. i « liguri » sud­

diti del protagonista della favola ovidiana quegli

stessi liguri, antichissimi abitanti del Piemonte (e

non solo di esso) che. in un secondo tempo, a causa

di infiltrazioni, vennero a formare il nucleo cello-

ligure che i romani trovarono all'epoca della loro