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i grissini!). Ma presto tra lheria. (Pallia ed Albione

remilo l'intera più cordiale.

Yussuf, intanto, fremeva dall'impazienza «li mo­

strare ai suoi « amici » il teatro da lui scoperto.

Fra il Teatro Nazionale, all'estremo della città, v i­

rino al Giardino Pubblico ( 10). Entrandovi,

l'A-

larcón e I Y riarte ebbero una prima sorpresa

quando, chiedendo

fauteuils d'orchestre,

si videro

offrire tre chiavi, come se avessero chiesto dei pal­

chi. Ma il l»i*rliettari». che parlava il francese,

spiegò loro che i posti da essi cercati si chiamavano

se<lie chiuse

e che le chiavi erano appunto desti­

nate ad aprirle.

Pacarono ciascuno quattri»

mute

(11). Rallegrati

dalla modicità del prezzo (cosa più che naturale,

del resto, in Italia, paese classico della musica!) en­

trarono.

v

provvisti di fede e di chiavi ». La sala era

spaziosa, sebbene troppo alta in rapporto alla lun­

ghezza ed all'ampiezza. Le decorazioni parvero al-

I*Alarcón piuttosto povere ed il pubblico di quar-

l’ordine. G li uomini tenevano il cappello in testa.

Già erano stati accesi i lumi dell'orchestra, consi­

stenti in enormi lucerne ad olio a due becchi che

Guido d* Arezzo doveva aver probabilmente cono­

sciute. lin a grande lampada a ga> pendeva dal

soffitto.

Il pubblico ruggiva impaziente, mentre Yussuf fa­

ceva strage all'intorno con i suoi occhi africani.

Finalmente l'orchestra attaccò.

«D io d'Israele! Che orchestra! Che caos di suoni!

Che tromboni! Che violini, simili a riheche! Che

furia marziale, quella del

siiinor direttore!

( 12). Ah

cane d'un moro! Perchè ci hai condotti fin qui!

Oh divina Euterpe! Come tolleri simili abbomina-

zioni? ».

Ed ecco, il telone, rappresentante un'allegoria dello

Stato Sardo,

si alza. Il pubblico continua a tenere

il cappello in testa.

Quattro G alli ed un capo ed otto druidi seguiti da

Oroveso, occupano la scena. Uno dei druidi veniva

innanzi tremando come se fosse staffilato per far

comprendere ch'era vecchio. Più di mezzo chilo-

gramma di lino gli serviva di barba. In cambio ve

n'era un altro con baffi e pizzo.

Ad Oroveso la barba giungeva alle ginocchia. Tutto

questo gruppo cominciò a cantare a tutto spiano,

levando le braccia con una simultaneità ed un ac­

cordo che sventuratamente non impedivano loro di

levare la voce.

S'avanza Politone, un formidabile personaggio, che

comincia a gridare a squarciagola. Dopo pochi mi­

nuti stona, poi erompe in una spaventosa stecca.

Il pubblico applaude, forse ironicamente.

Compare finalmente Norma, « figura non tragica,

nia patibolare, di grosse e scarnite ossa, d'aspetto

macilento

e

d'abito manierato». Canta la

Casta

dira

in tal modo che B e llin i non l'avrebbe ricono­

sciuta. Fio ri ed applausi. Yussuf guarda orgoglio­

samente i compagni. L'A larcón non ne può più e

lascia il teatro. L 'Y ria rte resta, certo per schizzare

qualche caricatura ( 13).

Dell'atroce delusione musicale lo scrittore di Guadix

si trovò indennizzato «piando nel Giardino Pubblico

s'imbattè in una ventina di soldati ed altrettanti

pescatori del Po. che. tenendosi per braccio, can­

tavano con bellissime voci, sotto la luna (così ir ­

risa poco prima dalla sacerdotessa), il

Miserere

del

Trovatore.

A l

VHótel

egli ritrovò l'Y ria rte . fuggito... innanzi

ad Adalgisa, peggiore ancora di Norma. Solo Y'ussuf

era rimasto, impav ido, al Nazionale, trattenuto da

speciali impegni con il corpo dei cori. Erano le

nove di notte: i due decisero di recarsi al vicino

Teatro Carignano.

Si rappresentava il ballo

Esmeralda

, inspirato al

noto romanzo victorughiano. Regina della serata

era la signorina Salvioni. « ballerina assai bella,

sebbene troppo alta per una silfide » ( 14). Ma, più

che dal ballo, l'attenzione dei due nuovi spettatori

era richiamata da un personaggio se',•’,'' in un

palco di proscenio, con la spalle voltate ai pub­

blico...

« D ima cinquantina d'anni, grassoccio, di piccola

statura, dall'alta fronte e dagli occhi vivissimi che

tralucevano attraverso gli occhiali, un po' trascu­

rato, sebbene decoroso neU'abito. con una fisio­

nomia più di scienziato, di bibliomane o di archeo­

logo che di diplomatico o di guerriero, semplice,

insomma, nell'aspetto e nelle attitudini», egli an­

dava scorrendo giornali su giornali, che deponeva

sul seggiolone accanto, lasciando la lettura solo

quando la Salvioni appariva in isccna. Avanzando

sino al parapetto del palco, egli afferrava allora il

binoccolo e lo puntava sulla voluttuosa Esmeralda.

Quel personaggio era « Papà Camillo », come lo

chiamavano i Torinesi: il conte di Cavour.

Un vicino diede aU'Alarcón minute notizie sulle

abitudini di vita del grande statista. Cavour si al­

zava alle quattro di mattino e studiava fino alle

sei. A quell'ora cominciava a «sbrigare» i due o

tre ministeri che aveva sempre a suo carico. Alle

dieci lo si poteva vedere a passeggio per le vie di

Torino, alle undici si recava al Caffè del Cambio

(di fianco al Teatro), dove faceva colazione, con­

fuso tra gli altri avventori. Poi si recava succes­

sivamente al Palazzo Reale od al Consiglio dei

Ministri, ed al Parlamento. In seguito pranzava

splendidamente. Alla sera riceveva i diplomatici o

dava pubblica udienza. Alle dieci faceva una scap­

patina a teatro, a veder ballare, e leggere i giornali

stranieri, a parlare dal proprio palco con le balle