

mera mortuaria — ancora anch’cssa dissimulata da
chiusura omogeneizzata con il resto della parete e non
sospettabile per i corridoi che dinanzi le si prose
guono a far supporre ancor lontana la meta — si
apriva, inatteso, un trabocchetto assassino del profa
natore che lì avrebbe trovato punizione alla violazione
perpetrata.
Sulla liceità o meno di appropriarsi dell'intimità
dell’antico Egitto a lungo si discusse in sede compe
tente risolvendo in favore del diritto della scienza ad
indagare emancipata da remore di pietà, di reverenze,
di obbedienze alla volontà di codesti illustri precursori.
In tal senso acquetato il dubbio etico, il cinismo
umano giusti ficantesi con sillogismo dialettico —
quando non addirittura sofistico — si munisce del
l’arma permessa della
philos sophiac
a sparare colpi
dilaniatiti anche al petto indifeso di defunti.
Ed ecco, in una decina di sale, in un bell’edificio
del centro, in una città europea, fra uomini eolica
mente diversi, domiciliarsi coattamente mummie di
viventi magari ottomila anni or sono; annullare nel
l'odore vivo della città operante, trasudante benzina,
nafta, e persino effluvi di cioccolato sbuffati da una
fabbrica dolciaria quasi attigua, l’odore indefinibile
della carne che si difese dalla putredine ma non potè
sottrarsi a dare di sè spettacolo repellente.
Ma il sopruso, il sacrilegio, reso legittimo da secoli
di tolleranza — più ancora, di incoraggiamento —
esclude opportunità di polemica ed offre a noi, devoti
visitatori, la possibilità della meditazione e dell’ammi
razione anche se sentimentalmente turbati per la per
sonale implicita partecipazione alla violazione della
volontà dei defunti che stiamo disturbando nella loro
misera sopravvivenza.
Due povere testine, cui l’estrema pietosa toilette
diede capigliatura ricciuta, ci accolgono separate da
noi dal vetro della bacheca che polisce di luce pre
ziosa il nero necrotico del loro viso secolare.
Lunghi minuti di sosta dinanzi il sarcofago gi
gantesco in cui giacquero le spoglie mortali di Hòro,
« quidam » della X X V dinastia e vissuto dal 7 12 al
663 A .E .V ., ci permettono di identificare nel disegno
nettissimo, nei colori appena opacizzati, il percorso
sotterraneo del Sole, già itinerato nella descrizione
contenuta nel «Libro di colui che è nella Tè’e” *, e
ravvisare le sembianze di geni funerari.
Un vasto frammento del sarcofago che ospitò la
salma di Petòsiris, sacerdote in Hermopòlis Magna, ci
estasia per il prodigio di abilità con cui, in questo
legno di sicomoro, sono state incastrate — circa tre
mila anni A.E.V . — figurine geroglifiche in smalti
multicolori.
La sacerdotessa N ’ ’m’ uh-moot, che operò durante
la XXIII dinastia quale ministressa del dio Ameurà’,
mostra, sdraiata sul fondo del sarcofago, le proporzioni
ridotte del suo corpo.
Poco lungi, nella fila centrale della sala, una vetrina
racchiude il sarcofago a doppio coperchio di un’altra
esponente ufficiale la religiosità egizia. Si tratta di Tho-
ktenhòns che ministrò quale sacerdotessa del dio
Ameurà’ durante la
X X I - X X I I
dinastia che diede
re all’ Egitto dal 1090 al 745 A .E.V . Ci colpisce la
sovrabbondanza policroma e di tonalità vivissima dei
geroglifici e disegni in rilievo che rivestono comple
tamente la superficie dei due coperchi su ciascuno dei
quali sono stilizzati il viso e le mani della defunta.
Quest’ ultime, abbandonate in croce sul petto, le dita
congiunte tra loro e nettamente sollevate ai vertici
dalla superficie del sarcofago, simili nella positura a
lievi ali spiegate di farfalla, richiamanti alla mente,
ciascuna mano, nella compostezza delle dita riunite di
cui solo i pollici sono leggermente disgiunti, il gero
glifico « D » della grafia egizia.
Nella stessa sala, il calco di un mezzo busto femmi
nile in tela stuccata, mantiene inalterata la vivissima
colorazione aurea. Più oltre, difesi dal vetro della ba
checa, ancora i calchi di due mezzi busti femminili
dalle colorazioni eccessive del viso e violente dell’ab-
bigliamento, e dai capelli lunghi d’ " " nr*ro innaturale,
sospesi alla parete fra due r i v e s t i * . l u n e b r i aventi
maschera dorata.
Inorridente pare risultare la nostra presenza alla
salma che se ne sta contratta sotto il nostro sguardo
e che il cartellino spiegativo indica come « reperto fu
nerario del periodo predinastico venuto alla luce nel
19 10 ad opera dello Schiaparclli durante gli scavi
italiani ad cl-Gcbclèn»; le e compagnia, nella bacheca,
la presenza di un letto, un boumerang, alcune frecce:
sul piano inferiore è il patetico volume di un bimbo
il cui visino si affaccia dai lini sudici e le cui gambette
rattrappite mostrano i piedi brevi e le tibie esili.
Una ricostruzione suggestiva ci viene offerta dalla
cappella per il culto funerario di un pittore che fu
« alla moda » a Tebe sotto la dinastia XVIII. Si chia
mava Majc cd era specializzato negli affreschi tombali.
C i misero al corrente di tutto d ò gli scavi italiani
del 1905-1906 a Der el Medina.
Sostiamo a lungo davanti il sarcofago di Haje,
capo dei lavori della necropoh di Tebe, committenti
i re Amenhòtpe III e Thutmòse IV, entrambi della
XV III dinastia; accanto a lui, la moglie Mcrjc m
sarcofago prezioso, e la quantità di provviste alimen
tari — in verità, ora, ben poco appetenti — abbon
danti di pani, pesci, aglio. Non manca la porzione
rassicuratricc di balsamo.
La principessa Ahmòse, la figlia di re T e e Te’o
sovrano, 1580 anni A .E .V ., giace nuda in posa rigida,
il corpo protetto da un sudario disteso a mo' di len
zuolo su cui si allungano le braccia aderenti i fianchi
e da cui sporgono le caviglie atrofiche ed i piedi
scarni, il sinistro languidamente abbandonato sul d o
stro, e pare ci segua con lo sguardo; noi la intuiamo
leggiadra dalle proporzioni fisiche che di lei ancor d
appaiono e giovanile e contenta — quasi — di rein
tiepidirsi al tenue raggio solare, che mendica ospitalità
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