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L ' U N I V E R S I T À

TORNA IN VIA PO

di A D E L E M E N Z I O

Passavo spesso la mattina in via Po e, quasi in

piazza Castello, gettavo uno sguardo distratto nel

cortile deH’Università vecchia: il solito mucchio di

mattoni rotti, una lastra di pietra sbocconcellata e, se

mi riusciva di arrivare, con gli occhi dico, fino all’altra

parte del cortile, m’accorgevo che non cerano più

scale nè pavimenti. La guerra.

Nella notte dall

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al 9 dicembre 1942 alcune

bombe caddero in via Po distruggendo completamente

le aule della Facoltà di Legge, i locali soprastanti ed

uno scalone; sette mesi più tardi, il

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luglio

1943, gli spezzoni fecero il resto: crollarono le volte

superstiti, rovinarono le scalinate ed anche la facciata

esterna fu gravemente danneggiata. L’edificio, di cui

rimanevano in piedi solo i muri maestri ed il por­

ticato, fu abbandonato.

Ma perchè — la guerra era ormai finita — non

si decidevano a rimettere in sesto uno dei più cari e

bei palazzi torinesi, perchè continuavano a schiacciare

gli studenti delle facoltà umanistiche negli stretti e

ciechi corridoi di Palazzo Campana e chiamavano

pomposamente « Aula Magna » una stanzetta qua­

drata con le finestrelle basse e due pali di legno

grezzo a sostegno del traballante soffitto?

Tre anni fa vidi una scena insolita attraverso le

sbarre del cancello: un operaio seduto sulla lastra

guardava un mattone. Era uno dei mattoni peggio

conciari del mucchio e non posso dire che la faccia

dell'operaio fosse proprio soddisfatta; appariva, anzi,

sconsolatamente triste, come se quel mattone rosic­

chiato e tutto buchi rappresentasse per lui, e per me

che lo stavo a guardare, la guerra, i bombardamenti,

la miseria ed il fallimento della nostra vita, più della

sua che della mia, perchè era vecchio. Non pensai

quel giorno che l’operaio volesse dire ricostruzione

del palazzo dell'Università.

La costruzione dell’edificio fu iniziata nel 1713 per

ordine di Vittorio Amedeo II che, fatto più sicuro e

grande dalla pace di Utrecht che gli attribuiva la

corona di Sicilia da lui scambiata, qualche tempo

dopo, con quella di Sardegna, concepì il disegno di

ricostituire l’ormai deca.

..dio torinese che, sono

nel 1404 ad opera di Ludo\ico d’Acaia, aveva cono­

sciuto momenti particolarmente felici per la sapienza

dei maestri ed il numero e la qualità dei discepoli

— nel 1506 vi si laureò Erasmo da Rotterdam —.

Ma ai tempi di Vittorio Amedeo II il nostro Ateneo

non si trovava certo in floride condizioni: dal 1580,

anno in cui morì Emanuele Filiberto, era cominciata

la crisi; se noi diamo un'occhiata ai documenti del­

l’epoca, contenenti l’elenco dei docenti, leggiamo

nomi di illustri sconosciuti, la frequenza è scarsa ed i

giovani preferiscono emigrare in altre sedi.

Dopo i tristissimi anni della dominazione francese

durante i quali l'Ateneo è disertato, anche se F-ance-

sco I, decretando l’unione di Torino alla corona di

Francia, riconferma tutti gli antichi privilegi dell’Uni-

versità, Emanuele Filiberto trasporta la sede dello

Studio che egli aveva fondato a Mondovì, quando

la capitale era in mano al nemico, a Torino.

L’opera di Emanuele Filiberto fu anche in questo

campo grande, tanto che una lapide,

incorporata in

una parete dello scalone sinistro dèi ricostruito

palazzo, lo ricorda come il vero fondatore dell’un i­

versità di Torino. Egli, nella sua legislazione, regolò

minutamente la vita degli studenti concedendo loro

molti privilegi, quali quelli di portare le armi e di

godere di particolari guarentigie giurisdizionali, fissò

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