QUANDO NACQUE L'INNO Di MAMELI..
Ecco gli studenti cogli ampi calzoni che scende
vano fino ai piedi, colla tunichetta serrata ai fianchi
da una cintura di cuoio chiusa da una grossa fibbia
d'acciaio, col sarrocchino e il cappello a larga tesa
ornato d'una penna che scivolava all'indietro; ecco i
Valdesi nel loro costume montanaro che gridano al
Re la loro devozione e la loro fede per averli eman
cipati; ecco i Lombardi scampati dalle grinfe della
polizia austriaca che apprestava loro le carceri della
Moravia.
Carlo Alberto quando sfilano pallidi, mesti, cogli
occhi pieni di lagrime il cappello abbassato, ha
una contrazione sul volto triste; i suoi occhi, che
non lasciano indovinare i moti del cuore, si fanno
più cupi e ad un tratto, con un impulso che gli
viene dall’anima, si toglie il cappello e rimane a
testa nuda al cospetto di quegli uomini che per la
patria erano pronti a sfidare con un sorriso il mar
tirio.
Ancora non era finita la sfilata che pervenne a
Torino la notizia che a Parigi era scoppiata la rivo
luzione e Luigi Filippo era in fuga colla sua famiglia
ed era stata proclamata la repubblica. Per quanto
giungesse inattesa ed in un momento non molto
opportuno, perchè poteva scemare l'audacia del Re
che intendeva di assalire l’Austria, e non desiderava
certo di avere alle spalle un focolare di rivolta, tut
tavia non turbò per nulla gli animi entusiasmati e
sereni.
Alla sera vi fu una grande luminaria e non mancò
neppure la mascherata raffigurante il carroccio coi
vincitori del Barbarossa osannanti e tripudianti.
Erano tempi in cui ogni notizia, ogni insurrezione
accendevano l’anima del popolo irrequieto e turbo
lento e ancora non era finita e chiusa la pendenza
della Costituzione che subito appariva a turbare la
serenità la cacciata dei gesuiti dalla Sardegna. Dopo
la Sardegna, la Liguria che li riversava a Torino, e
finalmente Torino che se li scuoteva di dosso e li
cacciava all’estero.
Sorse in quell’ora la milizia urbana volontaria coi
fucili vecchi a pietra focaia e le gibernacce a tracolla,
e per due notti quei bravi improvvisati militi pro
tessero i gesuiti dal furore popolare.
Al 6 marzo, in cui usci finalmente il decreto che
bandiva la famosa Compagnia da tutti gli Stati del
Re di Sardegna, a significare la gioia per la Costitu
zione
e.lasoddisfazione per la liberazione dalla setta
gesuitica, sorse bella, luminosa e fremente la musica
fatidica dell'/nno di Mameli.
Una sera nel Caffè Calosso, che dopo le Riforme
prese il nome di Caffè della Lega Italiana, entrò rag
giante Michele Novaro, secondo tenore e maestro
dei cori del Teatro Regio e del Carignano che erano
gestiti da una medesima impresa. Egli abitava al terzo
piano in una casa di via Roma a sinistra di chi viene
da Piazza Castello. Non aveva che una sola camera;
ma abbastanza vasta per dar ricetto quando gli pia
cesse ad uno stuolo di amici allegri e buontemponi.
Era un po' disordinata, perchè il proprietario non
se ne curava molto; ma era fornita di un buon piano
forte per rallegrare le ore notturne e di buone bot
tiglie in quantità forse maggiore degli spartiti musi
cali che stavano alla rinfusa in uno scaffale vecchio
e tarlato.
Il Novaro era un ardente patriota, affezionato a
Torino e ai Torinesi e contava nella città moltissimi
amici per quel suo fare rude da buon genovese, e
per la maniera di spifferare le barzellette quando i
cori non avevano troppo stonato durante le prove.
Nel caffè cerano dieci o dodici dei clienti soliti,
intenti, parte a bere certe mezze bottiglie di un
vino generoso, specialità dei Calosso, parte a giocare
a tarocchi. Quando entrò Novaro col suo passo ber
saglieresco, tutti notarono che aveva gli occhi sfol
goranti e che pareva trasfigurato in volto da un'in
tima soddisfazione.
Infatti, con voce concitata gridò:
— Amici, ho scritto la musica dell'inno di Mameli!
Volete sentirla?
Tutti si alzarono e un applauso vivo, irrompente,
salutò le sue parole.
— Venite a casa mia!
— Tutti?! — si gridò.
— Tutti e anche tutta Torino, se ci sta!
Non esitarono a seguirlo.
Allorché Novaro aprì l'uscio della sua camera, una
dozzina fra giovani e vecchi vi fecero rumorosamente
irruzione, impazienti di sentire come egli avesse
rivestito di melodia le parole frementi d’amor patrio
sgorgate dal cuore di Goffredo Mameli.
Egli accese quante lucerne e candele aveva per
la camera e le depose un po’ dappertutto; sul cami
netto, sul canterano, sul tavolo, sul pianoforte, poi
scoprì la tastiera, mise sul leggìo un foglio di musica
gettata giù in furia e fretta; ma prima di mettersi a
sedere volle spiegare ai suoi ascoltatori e giudici,
l’idea che gli ispirò la melodia trascritta di colpo
quasi, senza sussidio di pianoforte.
— Mi pareva di essere in una gran pianura che
non aveva confine, e in fondo, su un arco luminoso
che pareva oscillare fra la terra ed il cielo, vedevo
un trono sul quale sedeva nei suoi magnifici palu
damenti Pio IX. Intorno al trono c'era una gran
turba di re, di principi, di guerrieri, di altri prelati
e nella pianura si stipava un’immensa moltitudine.
Era la popolazione di tutta la penisola convocata dal
papa. Migliaia e migliaia di occhi si fissavano sul Pon
tefice e nel silenzio profondo la voce di Pio IX lim
pida, chiara, risuonò: «L'Italia si è destata, l'Italia
riprende la suagloriosa strada, e anela alla vittoria! ».
La folla s'agita, tutti si guardano, s’interrogano; le
parole del Pontefice hanno riscosso le anime, la turba
è cbme un mare in tempesta.
« Bisogna combattere e vincere » dicono tutti,
«ebbene si combatta, stringiamo in coorte, siam
pronti alla morte. l'Italia chiamò». Se lo ripetono,
se lo rimandano, si esaltano, è un crescendo incal
zante che sbotta in un grido supremo trasformato
in giuramento e urlo di guerra.